In passerella

São João da Madeira – Espinho

Ho già percorso oltre 360 chilometri, almeno questi sono quelli ufficiali poi ci sono quelli in più di cui vi ho detto varie volte: comunque sono oltre la metà del Cammino portoghese. Sono arrivato finalmente sull’oceano. Ci sono arrivato in anticipo rispetto all’itinerario ufficiale poiché ho cambiato una tappa: al posto di Grijò, un piccolo paese squallido dove non c’è quasi nulla a parte un bel convento che lascio in esclusiva ai pellegrini, ho deviato verso ovest e sono andato a Espinho, una divertente cittadina di surfisti e gaudenti attempati con una spiaggia di 17 chilometri dove è bello perdersi tra i bar e i ristoranti dell’infinito lungomare (ovviamente pulito e ben curato). Ci sono vari motivi di fascinazione per cui vale la pena di spendere qualche riga su questo posto. 

Primo, il mare: da qui inizia la parte più bella del Cammino portoghese, quella sulle passerelle di legno che per centinaia di chilometri mi porteranno in Spagna. Le passerelle offrono un vantaggio pratico, servono a non impelagarsi nella sabbia sebbene ci siano tratti che si possono percorrere a piedi nudi sulla battigia, e soprattutto uno ambientale perché sono una protezione delle dune, fondamentali per l’equilibrio ecologico di queste aree. 
Secondo: sto entrando nella Valle del fiume Douro, considerata la più importante zona vinicola del Portogallo, rinomata in tutto il mondo per i suoi vini forti e di gran carattere. E sapete che io sono abbastanza sensibile al fascino di una buona bottiglia (di rosso, of course). 

Come in ogni cammino mi sono dato, senza alcuna fatica, regole nette sulle comunicazioni. Che sono ridotte al minimo, tranne tipo la sera quando mi ricollego col mondo per scrivere questi diari, e che hanno come eccezioni mia madre e un gruppo ristretto di amici cari. Ciò serve fondamentalmente a proteggermi da un evento pernicioso per un giornalista, l’invadenza della cronaca. La mattina leggo i giornali dopodiché archivio ogni considerazione, anzi quasi la cestino, e mi dedico ad altri pensieri, indosso altre vesti, quelle del viaggiatore che annusa l’aria per conoscere ciò che altri sensi non consentono di esplorare, quelle dell’appassionato di musica che finalmente ha la colonna sonora per il film di quella fetta di mondo che sta attraversando lento pede. E’ per questo che stamattina ho salutato come un evento giubilare la telefonata – ne ho accettate sei o sette in tutto da quando sono in cammino – di un amico e giornalista che cazzeggiando mi ha chiesto cosa ne pensassi di alcune vicende dominanti in questo momento in Italia. La piacevole conversazione, possibile solo perché ero in pianura e a soli cinque chilometri dall’arrivo, mi ha dato la misura di quanto, per contrasto, sia fondamentale perdersi una volta tanto nella cronaca di se stessi. E ciò vale ovviamente non solo per i giornalisti, che pure sono tra quelli più a rischio alienazione. 
Imparare a dedicarsi a qualcosa di vicino allunga la vita delle cellule della soddisfazione. Non è facile, lo so. Ma basta provarci. Basta prendere un compasso e fare cerchi sempre più piccoli e in essi immergersi per scoprire che un cerchio piccolo non ha meno spunti, ma li ha più concentrati, più intensi.

13 – continua

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