L’utile e gli utili

Undici anni fa il Time incoronò come persona dell’anno Mark Zuckerberg con una spiegazione che oggi fa sorridere: perché avrebbe dovuto “domare la folla urlante e trasformare il mondo solitario e antisociale in un mondo amichevole”. La storia è abituata a farsi beffa di noi umani che vorremmo domarla, piegarla, condizionarla con previsioni azzardate. Dal 2010 a oggi molto è cambiato, ed è cambiato proprio a causa dei social network. Le folle urlanti sono tutt’altro che domate e anzi ululano proprio su Facebook e dintorni, la solitudine è stata accresciuta dall’estinzione di un sentimento comune basato su ragionamenti e il mondo più amichevole che conosciamo è forse quello che sta meno a portata di clic.

Per capire ciò di cui stiamo parlando dobbiamo tenere a mente che, pur evitando pericolosi complottismi, il mondo che conosciamo si regge fondamentalmente sul cemento di consensi versato da Facebook, Microsoft, Apple, Alphabet (la holding a cui fanno capo Google e altre aziende collegate) e Amazon. E che tutte insieme queste aziende alla fine del 2020 avevano una capitalizzazione di mercato di 7.500 miliardi di dollari: cioè se fossero un paese, il loro prodotto interno lordo sarebbe quasi quattro volte quello italiano. Attenzione parliamo di aziende giovani con storie incredibili alle spalle: nel 1997 la Apple era sull’orlo del fallimento; il primo anno in cui Amazon ha fatto profitti è stato il 2001; Facebook è nata nel 2004; Google è stata quotata in borsa nel 2005. Insomma la tecnologia che usiamo oggi è il frutto di interazioni inusitate: hippy, università, marijuana, garage, libri, follia e illuminazione. Sarà interessante vedere cosa si sta seminando adesso, in questi anni lontani da tutti gli altri anni, diversi, unici e speriamo non ripetibili.

Di certo sta fiorendo una grande illusione e cioè che il fatto che Twitter blocchi Trump sia una garanzia di libertà. La certezza che un prepotente, pericoloso e arrogante, in posizione di dominanza assoluta, venga azzerato da un social network per garantire un mondo migliore, svanisce dinanzi alla consapevolezza che un ristretto gruppo di persone nella Silicon Valley sta ridefinendo le nostre modalità di espressione, creando una sorta di zona grigia dove le regole si collocano da qualche parte, indefinitamente, tra la democrazia e il giornalismo, tra la libertà di espressione e gli utili di una azienda privata.          

Il complotto mondiale contro il PC

C’è un interessantissimo tema di discussione nel web, in questi giorni. Lo ha lanciato in Italia Paolo Attivissimo sul suo blog, riprendendo la lezione di Cory Doctorow al Chaos Computer Congress di Berlino.
La questione centrale è questa: il PC, inteso come normale computer ordinario, è diventato scomodo per governi, lobbies e aziende, perché non è controllabile. Le macchine generiche su cui far girare programmi piratati o non approvati, con le quali fare qualcosa che non necessariamente debba passare dall’approvazione di Apple o di una qualsiasi autorità politica o economica, sono destinate a scomparire. Al loro posto si vogliono i tablet, le console, i sistemi chiusi che accettano solo “cibo” predigerito.

E’ uno spunto che si ricollega idealmente, anche se da una direzione differente, al concetto di libertà in tempi di tecnologia avanzata al quale avevamo accennato qualche settimana fa.

Ecco il video integrale dell’intervento di Cory Doctorow coi sottotitoli in italiano.

Senza istruzioni

Ogni giornale, televisione, radio, sito internet del mondo sta, in questo momento, lodando il genio e le invenzioni di Steve Jobs. Spero che qualcuno lo ricordi anche per ciò che lui ha abolito: il libretto delle istruzioni.

Duri a morire

Ok, Steve Jobs è il guru telematico di questi tempi. Le sue creazioni hanno condizionato stili e comportamenti: si pensi alla rivoluzione dell’iPad.
Eppure il sistema operativo più diffuso rimane un altro.

Questi radical chic

di Verbena

Non confondeteli con gli snob. Sono un’altra cosa. I radical chic hanno le loro regole e si guardano bene dal confessarselo a vicenda. Hanno la loro cucina, la loro musica, i loro tic. I loro  accenti tonici e acuti, il loro sesso e la loro castità.  Pure i loro vizietti hanno, i radical chic. Mi dicono che io sia una di loro. Ma non ne sono poi così convinta.

I radical chic…

Il logo della Apple, anche incollato sulla Moleskine.

Sofri padre, Sofri figlio, Gassman nipote.

La bella scrittura, la sana frittura, la tv iattura.

Mai  provato il miele di acacia sul pecorino di fossa?

Fazio, Littizzetto, il Comunicattivo.

No alle griffe,  si al vintage (di lusso).

Il pilates e il tantra (lo yogi si è formato in India).

Truffaut, Corto Maltese, gli Abba.

No al fondotinta satinato,  si al kajal verdeblu.

Mai provato lo spezzatino di seitan?

Hemingway, Murakami, i poeti francesi.

Il cavatappi Alessi e la macchina del pane.

L’erba buona, il vino buono, il sesso buono.

Scalfari, Mina, Guzzanti (Sabina).

Cuoio, seta, cachemire.

Sushi, sashimi e tofu.

I senza dio, la frutta bio.

A proposito di iPad

Qui una discussione interessante sull’iPad e il futuro della rete. Buona domenica a tutti.

Sorprese

Poi, dopo cena, spunta un iPad.

iPac

Grazie a Giacomo Cacciatore.

A che serve? Non mi interessa

Ieri ho avuto il primo incontro ravvicinato con un iPad. Di questa bestiola tecnologica è stato già scritto tutto da persone molto più esperte e titolate di me quindi vi risparmio le impressioni per così dire tecniche.
Da detentore di un MacBook Air sono abituato alle forme sottili e alla piacevolezza della tecnologia levigata. Ecco, in questo l’iPad è davvero emozionante.
Nella mezzora in cui l’ho avuto tra le mani, ho suonato, ho aggiornato il blog, ho letto una pagina di un libro, ho cercato una parola che non capivo nel dizionario, ho consultato il New York Times, ho ammirato la scena di un film di guerra, ma soprattutto sono stato molto molto attento a non farmelo scivolare dalle mani. Perché è questo il pericolo maggiore: un oggetto di design, che starebbe benissimo anche da spento in salotto, non è prensile.
L’iPad è un apparecchio che ha un fascino pericolosissimo in persone come me: quello di un oggetto utilissimo che può dimostrarsi assolutamente inutile.

Un libro non è un telefono

Sono ipersensibile davanti a qualunque innovazione tecnologica che abbia tasti e schermo (a eccezione dei telefonini touch screen che confliggono con le mie zampe da orso).  Se potessi, comprerei quote della Apple solo per il gusto di collaudare prototipi e riempire casa mia di arnesi modernissimi, per farne che non so (del resto il vizio – perché di vizio si tratta – non si alimenta di vantaggi, ma solo di controindicazioni).
Eppure la presentazione dell’iPad mi lascia insoddisfatto per una serie di motivi.
Primo. La tecnologia avanzata per molti di noi snob quasi cinquantenni non è show, bensì élite. Le coreografie e i megascreen vanno bene per le convention del Pdl, non per l’ultimo parto artificiale dell’intelligenza naturale.
Secondo. Se un telefono serve anche per leggere libri e giornali, evidentemente ci sono problemi di dimensioni: i libri non sono fatti per infilarsi nel taschino della giacca e i cellulari non devono essere tenuti necessariamente con due mani.
Terzo. In Italia si dice: “Fare le nozze coi fichi secchi”. Cioè, senza i mezzi necessari non si va da nessuna parte. La Apple si muove, con molte buone ragioni,  in un’ottica anglofona che non tiene conto della realtà del nostro Paese dove è quasi impossibile trovare contenuti di qualità, ben assortiti e soprattutto tricolori, per un lettore multimediale come l’iPad. Corriere e Repubblica si stanno muovendo, ma l’immensa realtà delle aziende editoriali locali (che condiziona in modo determinante l’audience) è ancora guidata da direttori col telefono a disco e il televideo fisso a pagina 101.
Quarto. I costi sono elevati. A parte lo strumento (prezzo minimo 499 dollari per la versione base), resta l’incognita delle connessioni telefoniche legate ai singoli gestori. Il che, con i chiari di luna che ci sono dalle nostre parti, significa che per farsi un arnese del genere bisogna ricorrere alla cessione del quinto dello stipendio.
Insomma sono tentato comunque di lanciarmi nell’acquisto (le famose controindicazioni del vizio…), ma aspetterò. Perché in fondo la debolezza nei confronti della tecnologia non è indice univoco di imprudenza.