Questa foto

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Non è un problema di occhi, ma di cuore. Legittimo è non volere vedere la foto del bambino siriano morto sulla spiaggia, sbagliato è meravigliarsi se altri la mostrano. Non sarà la pietà per quel corpicino a nasconderci dalla realtà. E tanto più la realtà è orribile quanto più serve cuore. Io quella foto l’ho guardata e l’ho giudicata una delle immagini più atroci che mi sia capitato di osservare. All’inizio, lo confesso, l’ho guardata quasi di nascosto come se dovessi provare vergogna. Poi però mi sono alleggerito del senso di colpa dopo aver visto la prima pagina, magistralmente cruda, del Manifesto. E mi sono detto: sì, anche io l’avrei pubblicata.
In queste ore il partito dei contrari alla pubblicazione di quell’immagine, particolarmente attivo sui social network che sono una specie di luna park delle idee più balzane, tocca le corde del rispetto per la persona (tanto più che si tratta di un bambino) e addirittura, per noi giornalisti, quelle della deontologia professionale.
È appunto una questione di occhi e di cuore.
Guardando quella foto solo con gli occhi c’è tutto il panorama di requisiti per decidere di non pubblicarla: dalla durezza del contenuto alle indicazioni della Carta di Treviso. Invece chiamando in causa il cuore, che non è fatto solo per riciclare sentimenti a buon mercato ma anche per cercare di guardare oltre l’emozione più immediata, è evidente che siamo davanti a un manifesto, a una sorta di icona del dramma del nostro tempo. Ecco, credo che noi giornalisti in questi casi dobbiamo essere in grado di setacciare tutte le nostre intenzioni, di scendere dai pulpiti ai quali siamo perennemente abbarbicati, di non crederci fari ma solo fiammelle, e fare l’unica cosa che può alleviare il nostro conseguente senso di inutilità: distinguere le storie dalla storia. Ed è inutile andare a ravanare nell’etica quando ci si trova davanti a decisioni così difficili. È stato così, com’è giusto, per immagini che hanno fatto la storia: Eddie Adams vinse il premio Pulitzer nel 1969 con l’atroce scatto in cui un generale sudvietnamita spara alla testa di un ufficiale vietcong a Saigon, Nick Út se lo aggiudicò nel 1973 con l’immagine simbolo della guerra del Vietnam, il New Yorker sconvolse il mondo nel 1946 con un reportage choc sulla bomba di Hiroshima, e così via.
Credo che in questi frangenti non servano sermoni buonisti né ramanzine cripto-professionali. C’è un motivo per cui un buon giornalista affronta i fatti in prima linea: perché deve essere addestrato a non dare lezioni anche quando la tentazione è forte.
Insomma servono cuore e memoria per capire se e quando ci troviamo dinanzi a un evento che non ci lascerà uguali a prima.
Ecco, io credo che questa foto non mi mollerà mai.

 

A destra, eh

Richard Gere

Una città allo specchio

Una ragazza travolta da un’auto e uccisa. L’investitore, senza attenuanti, si dà alla fuga. Può una città riconoscersi tragicamente in una scena così? Ne scrivo qui.

Antiracket e insopportabili scorciatoie

PalazzoloUn estratto dall’articolo di oggi su la Repubblica.

La storia può essere raccontata così: un imprenditore denuncia la corruzione, rinuncia a una via illegale per un rinnovo di contratto e purtroppo vede andare in fumo quel contratto. Oppure così: un imprenditore fa il suo dovere di onesto cittadino, denuncia il corrotto e subisce le regole che riguardano tutti gli onesti cittadini. La vicenda del pasticciere Santi Palazzolo, che rischia di perdere lo stand all’aeroporto Falcone e Borsellino (…), si presta senza dubbio a una doppia lettura, ma ci fornisce lo spunto per una campagna di liberazione dalla retorica di una pseudo-cultura premiale cieca e socialmente ingiusta. Il ricorso alla corsia preferenziale per chi, coraggiosamente, si oppone al ricatto pone il problema di un corto-circuito logico che nel caso di Palazzolo può essere riassunto in una domanda: il vantaggio che si sarebbe potuto ottenere pagando una tangente, cioè compiendo un reato, dovrebbe essere comunque garantito gratuitamente a chi accetta di collaborare con le forze dell’ordine? Se sì, ci si porrebbe in una situazione in cui le regole risentirebbero pesantemente del contesto e in cui non sarebbe più la legge a guidare un appalto, ma il sentimento. Se no, si alimenterebbe il sempreverde sospetto che pagare la mazzetta sia più conveniente che mandare in galera il mazzettaro. Si potrebbe però scorgere una terza via: diamo a Palazzolo quel che è di Palazzolo, celebriamo il suo senso della giustizia nelle sedi istituzionali, ma salviamolo dalle sirene di una corrente di pensiero endemica: lo scorciatoismo.

Il padrino da frigorifero

u mafiuso santa luciaA Ortigia ho trovato un negozietto di paccottiglia e souvenir – più paccottiglia che souvenir – che vende questi simpatici magneti. La santa tra “u mafiuso” e “il padrino” rende bene l’idea di una terra che, non sapendo più a chi votarsi, sceglie di esportare sotto forma di santino da frigidaire le proprie balzane indecisioni.

Per colpa di una doccia

docciaIo me lo ricordo quando sono invecchiato. Era mattina e stavo facendo la doccia. Mi insaponavo e come al solito facevo una piccola contorsione, quasi rituale, per raggiungere ogni centimetro quadrato del mio corpo (pignolerie da Doc). Quel giorno, per la prima volta nella mia vita, fui costretto ad appoggiarmi per compiere il movimento. Un appoggio leggerissimo, un soffio di equilibrio, eppure cruciale per gli anni a seguire.
Non ero più giovane. Di colpo.
Non so se per voi è stato così, ma per me è stata una virata rapidissima. Da allora molte cose sono cambiate, nonostante mi ostini ad aggrapparmi a certe abitudini (sportive innanzitutto). Guardo il mondo da un’altra prospettiva, che non significa maturare pessimismo, anzi. Osservo molto di più i giovani e cerco di immedesimarmi in loro quando vorrei criticarli. Rispetto di più gli anziani e mi innervosisco di meno davanti alle loro esitazioni.
Oltre a leggere, adesso rileggo molto. E non è nostalgia, ma recupero di quei dettagli che nella foga mi ero perso.
Il problema è che non riesco ancora a essere particolarmente clemente con me stesso quando mi accorgo di non avere più la falcata di una volta, quando mi scopro ad apprezzare più la lentezza che la velocità, quando mi rendo conto che tutto decade tranne i difetti.
Provo disperatamente ad allargare i cordoni della pazienza sapendo che ne chiedo sempre di più.
Tutto questo per colpa di una doccia.

Amanda, Raffaele e il circo del web

raffaele e amandaC’è un vento di scandalo che cresce dopo l’assoluzione di Amanda Knox e Raffaele Sollecito per l’omicidio di Meredith Kercher. A soffiare sono i soliti intellettuali da social, digitatori abusivi di opinioni che hanno tutto da dire su tutto, anche se si tratta di argomenti a loro ignoti, e anzi meno ne sanno più si slogano i polpastrelli in tesi acrobatiche.

L’ultimo esercizio d’improvvisazione logica (più improvvisazione che logica) verte attorno al seguente argomento esclamativo: poveri Amanda e Raffaele, innocenti massacrati ingiustamente per otto anni da una giustizia ingiusta!

A parte la lunghezza del processo, che è il vero scandalo di questo Paese e che non riguarda solo i due ragazzi in questione, è fondamentale tenere a mente che il caso era particolarmente complesso e che si trattava di un procedimento a carattere indiziario. E gli indizi vanno pesati e vagliati attraverso tutti i gradi di giudizio che, ricordiamocelo, sono una garanzia di giustizia poiché impongono un vaglio completo e ripetuto di tutti gli elementi utili per giungere a una sentenza definitiva. Nel caso dell’omicidio della povera Meredith, ci sono voluti cinque processi per stabilire che il quadro accusatorio “non è sorretto da indizi sufficienti”, che comunque giustificavano un’attenta valutazione perché non si trattava di bruscolini, ma di sangue e violenza cieca. Qual era l’alternativa invocata dai tuttologi dei social? La sentenza che piace è più giusta di quella che non piace? Ci si può sostituire ai giudici senza sapere un tubo solo per il gusto di inventarsi un’opinione prêt-à-porter?

Se Amanda e Raffaele sono per la giustizia italiana non colpevoli, non è detto che siano stati accusati ingiustamente. C’era più di un sospetto, gli inquirenti non li hanno deportati in un’aula di giustizia perché non avevano nulla da fare, ma perché i due erano sulla scena del delitto e il loro comportamento induceva a pensar male. Il resto sono chiacchiere in libertà vigilata.

Il coraggio perduto del barbiere che si fece presidente

BarbiereUn estratto dall’articolo di oggi su la Repubblica.

Se il barbiere è un tale che usa arnesi taglienti con l’abilità di un chirurgo, che ti fa domande come uno psicologo e che ti dà dritte come un agente dei servizi segreti, Nunzio Reina è ed è stato l’uomo giusto al posto giusto. E non è la poltrona di presidente di Confartigianato Palermo il simbolo del suo potere, ma le sedie girevoli del suo locale, il New Man di via XX Settembre. Lì, Reina ha tagliato, ammorbidito, ripulito: e che fossero capelli o guance poco importa, comunque di capocce e capoccioni si è occupato. Continua a leggere Il coraggio perduto del barbiere che si fece presidente

La regola del viceversa secondo Ingroia

Antonio Ingroia

Un estratto dall’articolo di oggi su la Repubblica.

Piovono sciocchezze sulla testa del povero Antonio Ingroia, ex magistrato, ex candidato a premier, ex formatore di pattuglie anti-narcos, ex leader di Rivoluzione Civile, ex presidente di Riscossione Sicilia, ex commissario della Provincia di Trapani, attualmente amministratore unico di Sicilia e-Servizi. Proprio in questa ultima veste, il gip Lorenzo Matassa ha ordinato alla procura di Palermo di indagarlo per abuso in atti d’ufficio. La vicenda giudiziaria è complessa e sarebbe poco avvincente se Ingroia, pur avvertendo il suo pubblico di aver “cose più serie a cui pensare”, non si fosse esibito in un’argomentazione che costituisce il pilastro di un inscalfibile sistema assiomatico: indagare me è una sciocchezza colossale. (…)
Insomma dovevano passare alla santificazione, ma al momento si sono fermati al martirio. Succede quando si è incompresi, quando la memoria la si invoca e non la si esercita, quando si dimentica che la modestia è in fondo una forma raffinata di vanità. Il mistero della parabola di Antonio Ingroia, da coraggioso pm e simpatico discettatore televisivo a modesto leader politico e appassionato protagonista della fanta-rivoluzione Crocettiana, è tuttora insoluto. L’unica certezza è che l’ex magistrato conosce talmente bene la legge da ritenere possibile che ci debba essere per forza un viceversa.

I rischi del partito macedonia

davide faraoneUn estratto dall’articolo di oggi su la Repubblica.

Esserci o non esserci? La domanda cruciale che galleggia tra i componenti siciliani del Pd è tutta legata a cosa fare nel weekend. Andare alla Leopolda palermitana o girare al largo? La vocazione elitaria del partito, in passato sperimentata come ottimo antidoto contro sconfitte e passi falsi, trova la sua Caporetto isolana nei Cantieri Sandron dove sabato e domenica si celebreranno il rito del bagno di folla e la cerimonia della promiscuità programmatica. Tutti insieme appassionatamente nel partito macedonia, perché persino nel bignamino della politica c’è scritto che non si governa solo con le idee, ma che ci vogliono i numeri. E che le rivoluzioni annunciate, dalle nostre parti non portano a niente giacché servono consessi di stabilità, occorrono persone in grado di mettere ordine anziché scompaginare. Intanto dietro la porta di Davide Faraone, colui il quale ha preparato e condito la macedonia, la fila si allunga. Ci sono ex di tutto, fuoriusciti di partiti estinti, amministratori raminghi, dirigenti incazzati, cercatori di luce e portatori d’ombra. Premono per un posto in quel Pd che un tempo respingeva e che oggi abbraccia con una capacità di accoglienza che rischia di innescare una sorta di emergenza umanitaria nella politica siciliana. (…)
“Delinquenti e mafiosi li lasciamo fuori”, avverte Faraone sorvolando sul dettaglio che non basta la fedina penale pulita per ottenere il biglietto di ingresso nel partito, ma che dovrebbe essere richiesta una modica quantità di coerenza. Questa però, nella terra della perenne transumanza politica, è una qualità poco apprezzata.
Ora nel Pd l’ordine di scuderia è uno e uno soltanto: “Aprire le porte”. Anche a dispetto del tempo che fa.