Qualche mese fa scrissi qui una riflessione sui miei novembri (che, con mia sorpresa, piacque abbastanza). In generale piacere mi fa piacere – che piacere sarebbe non piacere? – ma quando il gradimento è granitico allora mi suona un campanello. Accade poche volte da queste parti. Anzi in tempi recenti sono stato indotto a rimpiangere la brodaglia di un consenso uniforme e spesso poco motivato: infatti la virulenza di certi metodi di dissenso mi ha costretto a usare la clava dialettica o, metodo meno entusiasmante, a ricorrere all’avvocato.
Resto un fan del dibattito acceso, un nemico giurato dell’imparzialità, che è quella cosa che si tira in ballo quando non si hanno argomenti per sostenere una tesi o non si ha voglia di combattere per un’idea. C’è una bellissima frase, di cui parlammo qui, che può essere incorniciata, soprattutto in questi periodi in cui le truppe dell’ignoranza organizzata fanno caciara attorno ai monumenti della ragione: giornali, libri, teatri, luoghi di arte, lo stesso web.
La frase è questa: “Noi non possiamo essere imparziali. Possiamo essere soltanto intellettualmente onesti: cioè renderci conto delle nostre passioni, tenerci in guardia contro di esse e mettere in guardia i nostri lettori contro i pericoli della nostra parzialità. L’imparzialità è un sogno, la probità è un dovere”.
Insomma questo post è un mirabile, anzi “mirabile”, esempio di preambolo più lungo della tesi centrale: praticamente mi sono preso la licenza di parlare incidentalmente di giornalismo e di far un pessimo uso dei ferri del mestiere.
Eravamo ai miei novembri.
Ora siamo ai nostri febbrai. Agli ultimi tre almeno: quello dell’esplosione della pandemia, quello della resistenza e della reclusione, quello della guerra.
Nel disastro collettivo come nei drammi personali, abbiamo imparato che l’unica cosa da fare nelle difficoltà è rimboccarsi le maniche: tanto, anche se arriva il peggio, almeno ti coglie cazzuto e in piena attività, e non svaccato e rincoglionito dal far nulla (che è dolce solo nelle favole). Abbiamo anche sperimentato il potere mefitico dell’illusione a caldo, il famoso “ne usciremo migliori”. E ci siamo persino esercitati nel sempre utile esercizio della speranza, che prima intendevamo come una cosa a metà tra la lettura dei fondi di caffè e l’aspettativa di un miracolo e che oggi, più prosaicamente, raffiguriamo come uno zaino da metterci sulle spalle.
La speranza pesa, va condotta. Costa, in termini di fatica. Non cade dal cielo, la speranza si conquista facendo.
I miei febbrai mi hanno dato questa lezione, dura e non ancora assimilata in pieno.
Saper sperare è avere piena coscienza che un’alba passa sempre attraverso una notte.
Un commento su “Era febbraio”