La mafia al tempo dei social

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

A Catania il clan degli spacciatori puniva i pusher che sgarravano pestandoli e umiliandoli e poi postava i video su TikTok. A Palermo la sete di vendetta per l’omicidio di Emanuele Burgio, figlio del boss della Vucciria, cresce su Facebook. Sono solo gli ultimi due episodi di una catena infinita di esternazioni e dimostrazioni di forza talmente tracotanti da apparire grotteschi nella loro ingenuità: la violenza esibita urbi et orbi ha un inconveniente non di poco conto, è visibile anche alle forze dell’ordine. Ma non importa. Ciò che conta è mostrarsi, riscuotere la gratificazione istantanea. Esserci nel non-luogo del social network può comportare un allentamento dei freni inibitori e l’abbandono della tradizionale prudenza persino da parte di un sodalizio criminale che proprio sulla prudenza ha costruito un complesso sistema di sicurezza. È vero, la mafia ha sempre cavalcato il clamore di certe sue azioni per intimidire, eliminare il dissenso. Colpirne uno per educarne cento, da Mao alle BR sino a Totò Riina, è stato un metodo che si sostanziava di azioni pubbliche, di ostentazioni violente. Ma lì almeno c’erano una logica ferrea e un filtro verticistico: oggi chiunque abbia un telefonino e un’idea malsana colpisce e “educa” a modo suo.  Perché è cambiata una regola fondamentale che riguarda tutti, criminali e persone perbene: il destino di una teoria, qualunque essa sia, anche la più storta, non è più determinato dalla sua validità, bensì dal contagio che essa riesce a generare. La violenza ostentata in barba alla più elementare forma di prudenza è figlia di quella libertà, anzi “libertà”, vigente nei social che calpesta la norma numero uno della buona creanza: un’opinione è tale solo se esce dall’orifizio giusto.      

Quando arrestarono mio padre

È una storia di ventisette anni fa. E mi è tornata alla mente – che è una maniera imprecisa di dire che è riaffiorata dato che non se n’è mai andata – leggendo di questa storia.  Nel 1994 mio papà venne arrestato per una storia di abuso d’ufficio nell’ambito di un’inchiesta sulla sanità siciliana. Non mi inerpico nei dettagli, dico solo che era una ramificazione giudiziaria e mediatica del mood “mani pulite” che pure aveva più di un attaglio nel clima di illegalità diffusa in Italia. Ma la storia di mio padre è emblematica.

Presa una tesi, nella pubblica amministrazione si ruba, si costruì un’architettura che la giustificasse. Si inventarono consulenti al limite del ridicolo – bastava che parlassero un qualunque dialetto nordico e i pm siciliani della procura di Caselli li accoglievano a braccia aperte – e soprattutto si rovinarono molte vite per illuminare altrettante carriere che altrimenti sarebbero rimaste nell’ombra di una normale e dignitosa attività lavorativa. Perché, va detto (e ve lo dice uno che si è sempre battuto pubblicamente per l’indipendenza della magistratura e contro il malaffare in tutte le sue declinazioni) in quel tempo un magistrato era nulla se non aveva un titolo sul giornale. Ho mille ricordi e testimonianze su questo punto, avendo fatto il capo delle cronache siciliane dell’allora maggiore giornale dell’Isola per vent’anni: magari un giorno vi racconterò.

Intanto torniamo a mio padre.

Lo arrestarono con un tam tam di annunci che raggiungeva me per primo, suo figlio, in quanto giornalista. La sera in cui scattò il blitz – erano una dozzina di “pericolosi delinquenti” da bloccare – io lo avvisai: per prepararlo, non certo per farlo scappare. Infatti lui si consegnò con serenità ai finanzieri e si beccò tre giorni di arresti domiciliari. Certo, a quei tempi erano niente tre giorni di arresti a casa: gli altri suoi colleghi si fecero mesi di Ucciardone, perché avevano l’accusa di corruzione che lui non aveva (nessuno avrebbe mai potuto accusarlo di corruzione, neanche il più fantasioso dei pm).
Prima di dirvi come finì, vi dico come continuò. Che è la cosa più scandalosa.
Non avendo nulla contro di lui, lo sommersero di inchieste – oltre una dozzina – sempre con la stessa accusa: abuso d’ufficio, un reato che è acqua fresca per un amministratore pubblico giacché a quei tempi se facevi rischiavi questa incriminazione, se non facevi rischiavi l’opposto, l’omissione. Si sorbì anni e anni di processi, a forza di frequentare il tribunale di Palermo diventò amico di avvocati e magistrati (tutti, tranne quelli che lo avevano inquisito, erano troppo protervi persino per lui che era l’uomo più comunicativo dell’universo conosciuto), e a un certo punto ammise di masticare più di codice penale che di medicina nonostante le sue quattro specializzazioni.

Alla fine fu assolto da tutto. Ovviamente.

La sua fortuna fu di essere lui, ironico, ottimista, buongustaio, lucido estimatore della vita vissuta. Ne discutemmo a lungo nel corso degli anni e lui ne parlava sempre con un sorriso di duplice lettura: di ammirazione per la nostra tenuta e per la fiducia nelle cose sane, di compatimento per quei poveri magistrati che si erano dati pena di dipingerlo come parte di un sodalizio criminale che era solo nel loro insano protagonismo. Gli rivelai anche di un carteggio che avevo tenuto con Caselli sul tema, rimasto sempre una cosa privata tra me e l’inchiostro verde della stilografica del procuratore.

La nostra famiglia, per fortuna, si riprese dagli strattoni di quelle inchieste sgraziate che produssero solo una sequela di assoluzioni e una manciata di condanne (a conferma che a sparare nel mucchio si fa una strage ma ci si può sempre inventare la scusa della “guerra giusta”). Eravamo ben strutturati e, tutto sommato, non avevamo subito i disastri che altri avevano dovuto sopportare. Insomma eravamo stati fortunati, in un’epoca in cui la giustizia era la mano che faceva girare la ruota della (s)fortuna.

A tutto questo e a molto altro pensavo leggendo delle sventure del sindaco di Lodi arrestato ingiustamente, deriso da giornalisti come Travaglio, oggetto di odio social-comandato da parte del Movimento 5 stelle.
L’odio è un modo subliminale per odiare se stessi. Ricordiamocelo quando sputiamo sentenze su cose di cui non sappiamo nulla e, soprattutto, non ci interessa avere un parere che sconvolga il nostro pregiudizio.  

Ma ne riparleremo, promesso.    

Confusi e infelici

Ricevo dalla Commissione Pari opportunità dell’Assostampa Sicilia una mail in cui mi si contesta il post pubblicato sui miei social che vedete qui sopra.

Gentile collega,
Abbiamo rilevato la pubblicazione di un post su Instagram e Facebook che condivide la foto del fondoschiena di Nicole Minetti. Il commento a corredo, “Una vita oltre la politica. Anzi dietro”, ha scatenato una sequela di commenti offensivi e che scadono nel trash.
In un’epoca in cui l’attenzione sulla lotta contro la violenza sulle donne è massima, la nostra Commissione ha valutato di scriverti per chiederti di porre maggiore attenzione nell’uso dei social, in quanto giornalista, editorialista, scrittore, portavoce del più grande teatro della città, per evitare commenti che alludano a una cultura ancora fortemente maschilista. Proprio sui social network un contenuto su quattro offende le donne o le prende di mira. Ti invitiamo a non alimentare questa deriva.
Grazie per l’attenzione, la Commissione Pari Opportunità di Assostampa Sicilia

Delegate provinciali Lina Bruno,Graziella Lombardo, Romina Marceca, Maria Torrisi

Si dissociano la Presidente Ina Modica e la Vicepresidente Cristina Graziano

Di seguito la mia breve risposta.

Gentili colleghe,
io i social li conosco e li studio da molti anni, come forse non sapete. Non è non condividendo con ironia (che, capisco, non è un linguaggio universale) che si isolano i selvaggi e gli incolti. E’ come se a qualcuno di voi chiedessi di non scrivere di delitti per non incrementare la violenza. 
In quanto “giornalista, editorialista, scrittore, portavoce del più grande teatro della città” so bene la differenza che passa tra la violenza sulle donne e un commento tipo il mio che proprio le donne le vorrebbe mettere in guardia dal Minettismo.
Vi risparmio altri dettagli a supporto della mia tesi per non tediarvi. Mi fanno pensare le due dissociazioni in calce a questa mail, che mi riservo di rendere pubblica.

Un saluto

Insomma la Commissione Pari Opportunità dell’Assostampa Sicilia, probabilmente per certificare la sua esistenza in vita, mi invita a essere più attento su un tema al quale presto ogni giorno la massima attenzione. Evidentemente si può sempre migliorare e mi impegno in tal senso (però scegliendomi i maestri). Tuttavia anche io ho un invito da fare alle mie illustri colleghe di cui sopra: attenzione, a ragionare per luoghi comuni si perde il senso di una logica comune. Il mio post aveva l’evidente obiettivo di stigmatizzare un certo modo di usare il corpo per far carriera, quindi conteneva un messaggio molto più preciso di quelle quattro parole incatenate (“…una cultura ancora fortemente maschilista…”) che volevano dare un indirizzo e che invece, messe così a caso in un contesto in cui non c’entravano un bel nulla, rappresentano una grande, pericolosa, confusione. Strategica, professionale, mentale.  

L’accendino fumante

L’articolo pubblicato su la Repubblica Palermo.

Noi siciliani siamo abituati a convivere col fuoco, in qualunque forma possa essere rappresentato. La fiamma in sé racconta una devozione coatta verso il potente, che sia un santo o un attentatore del racket. Si brucia per scacciare il malocchio o per ringraziare, per punire o ammonire. Dalla candela al rogo c’è sempre una mano che regge una convinzione, spesso molto personale, raramente condivisibile. Perché qui in Sicilia il fuoco è soprattutto mistero. Mistero della mente, di un profitto difficile da raccontare, di tradizioni criminali fuori dall’intelligibile. Chi avvicina un accendino a una stoppia mentre mira al bosco limitrofo è attore di una commedia che comunque la si reciti ha sempre un finale orribile. L’altro giorno un forestale sessantenne è stato beccato in provincia di Palermo mentre dava fuoco alla riserva naturale orientata “Serre di Ciminna”. Lo hanno sorpreso con l’accendino in mano: quando si dice con la “smoking gun”, la pistola fumante cioè la prova regina…

Poi è accaduto quello che accade generalmente in questi casi, che il gip ha convalidato l’arresto e lo ha rimesso in libertà: una sorte di ossimoro per chi non mastica cose di legge, che però non fa una grinza su fronte della corretta applicazione della norma.  

Il criminale – perché di criminale si tratta – che dà fuoco a un bosco e che torna a piede libero in tempo per la cena, difficilmente si ravvederà: il suo è un delitto per così dire ordinario, che non gli ha mai sconvolto la vita, ma semmai gliel’ha semplificata. Se non è giusto criticare la legge, perché quella si rispetta e basta, è giustificabile abbandonarsi a un pensiero di sconforto. Perché la nostra società si organizza e si adatta non soltanto in base al reticolo di norme che la sorreggono, ma anche in base a una perniciosa tendenza all’imitazione. Alla fine una mano che tiene un accendino può essere pericolosa più che se reggesse una pistola.

Noi siciliani siamo abituati a convivere col fuoco e con le pistole, ma non è detto che ci piaccia.

Ignoranza digitale al potere

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Sino a pochi giorni fa il governatore Musumeci protestava indignato in tv, sui giornali, sui social perché il Tar aveva sospeso la sua ordinanza sui migranti senza nemmeno ascoltare la Regione. Poi si è scoperto che la e-mail con la quale chiedeva l’audizione era stata inviata alla persona sbagliata. Per dirla con le parole dell’ufficio stampa della Giustizia amministrativa “la richiesta audizione è stata sì formalmente presentata, ma ad un indirizzo telematico errato, non idoneo alla ricezione degli atti processuali, e comunque tardivamente, sicché, per fatto imputabile alla stessa Regione Siciliana, tale richiesta non è stata tempestivamente acquisita nel fascicolo processuale”. Qualche anno fa il “New Yorker” scoprì che gran parte dei giudici della Corte Suprema degli Usa, il massimo organo giudiziario del Paese chiamato a dirimere anche questioni di tecnologia, non aveva mai usato la posta elettronica. Quindi Musumeci è, diciamo, in buona compagnia. Solo che qui l’imperizia telematica, magari non direttamente del governatore ma degli uffici preposti che comunque rispondono a lui e per lui, è in perfetta sintonia con una mancanza di attenzione e una sciatteria che concorrono a trasformare un errore in una figuraccia. Se un minimo della grinta e della determinazione impiegate per inventarsi un legame tra i migranti e un aumento del rischio sanitario in era di Coronavirus (legame, allo stato, categoricamente smentito dal giudice) fosse stato messo in campo per digitare il corretto destinatario di un’istanza, probabilmente non saremmo qui a ridere amaro di un’istituzione che non sapendo che pesci prendere, si inventa il complotto di agosto. Sarà il caldo.  

Filosofia (spiccia) del buon gusto

Se c’è un vero stravolgimento legato alla relazione tra social network e vita reale, è legato al modo con cui il nostro passato scorre nelle timeline. Partiamo da un link di cronaca e da una domanda. Il primo rimanda – piccolo esempio in un mare di episodi analoghi – alla scoperta pressoché quotidiana di post del neo assessore alla cultura della regione siciliana in cui si esprimono giudizi e linee di pensiero che cozzano con la buona creanza (e persino con la coerenza politica). La domanda invece è: oggi gli attimi fanno la storia?

Qualche mese fa, ne ho scritto qui, nel cercare di (re)censire la fuffa del web parlai dei lavori su media ed etica dell’israeliano Hagi Kenaan, il quale sostiene che l’occhio ha ormai raggiunto uno “stato di morte clinica” a causa di ciò che definisce “estetica dell’appiattimento”. Risultato, la responsabilità etica è la prima vittima dell’appiattimento: secondo Kenaan dal pudore al semi-pudore è solo un passaggio tecnico, con quel che sul web ne consegue. Ciò influisce pesantemente sul meccanismo della deresponsabilizzazione che, nei social, è la principale causa di guai.

Quando scriviamo un giudizio avventato, quando ci schieriamo senza aver ben ponderato, quando condividiamo alla cieca, quando cercando disperatamente di essere noi stessi in un’altra dimensione ci ritroviamo a essere la controfigura eroica di un personaggio anziché di una persona, ci dimentichiamo che stiamo comunque incidendo una frase su un muro pubblico (tipo “A&B uniti per sempre”). E che quel muro non è solo lavagna, ma anche sfondo per un plotone d’esecuzione.

Pensare di poter pensare pubblicamente senza pagar dazio, soprattutto a dispetto dei tempi che cambiano, è da sprovveduti. Chiunque, spiando nella cronologia dei nostri account, può trovare frasi e concetti che magari stridono con la situazione attuale. E non è uno scandalo perché la macchina del tempo non è ancora stata inventata e il fatto che le cose cambino non esclude che le persone si accodino.

Ma il buon gusto e i cosiddetti fondamentali non si discutono.

Esistono dottrine, parametri, idee che resistono ai refresh e agli aggiornamenti di sistema. I cosiddetti errori di gioventù sono la visione romantica dei moderni epic fail. Però a tutto c’è un limite, anche in quest’epoca senza apparenti limiti.     

Incontrovertibile

L’articolo pubblicato su la Repubblica Palermo.

La parola del giorno è: incontrovertibile. E mi sovviene dal sovrapporsi di due notizie. Una riguarda il neo assessore regionale alla Cultura Alberto Samonà che, in un suo libro di molti anni fa, cita quantomeno con eccessiva leggerezza letteraria le SS (non credo che inneggi, ma di certo offre il fianco a chi ha il difettuccio di odiare il fascismo e i suoi nauseabondi surrogati): soprattutto nell’era in cui la memoria di cui difettiamo quando si tratta di riconoscere meriti si acuisce, magari a mezzo social, per ripescare scivoloni e cadute di stile. L’altra riguarda il direttore del parco archeologico della Valle dei Templi Roberto Sciarratta che, con la sua sedia a rotelle, ha fatto in modo (e verificato personalmente) che il parco sia perfettamente accessibile anche a chi ha difficoltà di deambulazione. L’abbattimento delle barriere architettoniche è da sempre considerato un optional nella nostra società e il fatto che ci sia bisogno di un dirigente in carrozzina per elevare il nostro grado di civiltà, ci mette dinanzi a un’evidenza sulla quale dovremmo riflettere tutti: la disabilità è un modo ingegnoso di vivere, quindi in molti campi rappresenta una competenza in più.

Sono due temi, due ambiti, due scenari diversi, certamente. Ma con un denominatore comune: quando si parla di amministrazione della cultura bisogna sempre tener conto che si maneggia qualcosa di prezioso, addirittura pericoloso se usato maldestramente. Per troppo tempo le politiche culturali sono state affidate ai venti termici delle segreterie di partito, qui più che altrove giacché qui più che altrove un museo o un teatro non sono visti come luoghi di comunità, ma come luoghi di spartizione e/o elargizione: cioè l’esatto contrario della loro natura.  Ecco perché quell’incontrovertibile. Perché dal raffronto di queste due notizie forti, mi è sorta l’esigenza di una garanzia di incontrovertibilità. Che in un caso c’è, ed è evidente. Nell’altro no.     

Saluti e (niente) baci

L’articolo pubblicato su la Repubblica Palermo.

La distanza imposta per decreto è la nemesi di un mondo che da millenni non ha avuto altro obiettivo che togliere metri e chilometri, ridurre differenze geografiche, avvicinare nel tempo e nello spazio. Ma soprattutto certifica l’abbattimento di quei pilastri sociali che al Sud e specificatamente in Sicilia sorreggono la vita quotidiana. Pensiamo allo struscio, che ha generato una figlia imperfetta di nome movida, e che da sempre è la migliore forma di comunicazione non verbale dalle nostre parti: oggi si passeggia a distanza, uno sfioramento è un atto criminale e fischiare attraverso una mascherina è complicato. E il rito del saluto? Nell’era dei rapporti senza corpo, il bacio in tutte le sue declinazioni (da quello di amicizia a quello di rispetto, da quello di seduzione a quello di rito) viene abolito piallando le differenze culturali e sociali: questa Palermo di gente che si saluta con un gesto del capo mezzo clandestino pare una Pechino senza emergenza.

Ci abitueremo, perché noi terroni siamo il giunco che si cala ancora prima della piena. Perché sappiamo identificarci col nostro sintomo, senza vergogna, prima ancora che Lacan ci costruisse sopra una famosa teoria. Siamo l’unica popolazione che usa un alfabeto Morse mentre chiacchiera: ci tocchiamo coi gomiti anche tra estranei per rafforzare concetti, per sottolineare, mettere accenti, in una sorta di complicità tattile. Ora ci resta la semplice parola, filtrata con o senza FFP2, e non si può manco più contare sulla mimica facciale, che è scorciatoia ed enciclopedia di emozioni al tempo stesso. Nei nostri scambi c’è solo il messaggio crudo, senza l’immenso corredo di non detto che fa romanzo (e anche un po’ cronaca). Il futuro è un Totò Cuffaro senza baci.        

(Cinque) Stelle cadenti

L’articolo pubblicato su la Repubblica.

Con le sentenze non si scherza, nonostante a nessuno sfugga la grottesca situazione per cui un intero nucleo fondante del movimento che brandiva lo slogan “onestà onestà” come una clava chiodata nel giro di qualche anno è stato disintegrato da un’inchiesta giudiziaria, proprio come accadeva coi partiti tradizionali, quelli che si voleva estirpare. La vicenda delle firme false del Movimento 5 stelle, quella per la quale la scorsa settimana sono arrivate dodici condanne, è un serio, serissimo monito per gli aspiranti della politica, più o meno movimentisti, che cancella un’illusione sulla quale si regge tutt’oggi un castello di promesse elettorali: cioè che basta essere persone perbene per non cadere in pericolose ingenuità, che la pia intenzione è tutto, e che a ben amministrare prima o poi siamo capaci tutti. E è solo la sentenza ma tutto il corollario di destituzioni, espulsioni, veleni a metterci di fronte all’evidenza che un movimento di cittadini qualunque governato da cittadini meno qualunque, quando si mette d’impegno, riesce a fare anche peggio di un volgarissimo partito ordinario. In tal senso la Sicilia come “laboratorio politico” non è riuscita a dare risultati migliori del “Piccolo chimico”, il famoso gioco degli anni Settanta dinanzi al quale l’unica emozione, a parte rischiare di avvelenarsi, era lasciarsi affascinare dal viola acceso del permanganato di potassio a contatto con l’acqua. Ecco, il Movimento 5 stelle di quegli anni – siamo tra il 2012 e il 2013 – era il sale che colorava le provette della speranza di una politica che non doveva chiamarsi politica e che faceva, spesso incidentalmente, anche cose egregie. Solo che anziché tendere alla massimizzazione dei risultati, il partito non partito puntava alla massimizzazione delle premesse: insomma non importava dove si sarebbe arrivati, ma era fondamentale marcare le differenze di partenza, come un pugile che non si cura dei muscoli ma del colore dei guantoni.
Ieri come oggi, la vera leadership consiste innanzitutto nel non sottovalutare mai il potere di uno stupido in un vasto gruppo. Il resto è sopravvivenza.

In morte di un meraviglioso signor nessuno

L’articolo pubblicato su Repubblica.

Ci sono situazioni che sembrano lontanissime eppure sono vicine, vicende che possono solo essere frutto di immaginazione e invece accadono. Ci sono tragedie che sono film, tanto è drammatica la teatralità che le avvolge, e invece sono reali, investono qualcuno che conosciamo o che abbiamo appena incrociato per strada. Giuseppe Liotta era un medico che curava i bambini e lo faceva con la passione di chi non confonde il lavoro con la routine. Infatti, sabato scorso, aveva deciso di andare in ospedale nonostante la natura gli avesse scatenato contro tutte le sue forze, quasi a voler mettere alla prova il suo eroismo. Ma Giuseppe Liotta non era un eroe. Era un medico, un medico che curava i bambini. E il suo ospedale non era a un tiro di schioppo, ma a Corleone. Così non ci ha pensato su manco mezza volta quando è salito sulla sua auto ed è partito verso ciò che per noi può essere solo frutto di immaginazione e invece accade. Hanno ritrovato il suo cadavere cinque giorni dopo a dieci chilometri dalla sua auto, sepolto dal fiume di fango che lo ha strappato alla sua straordinaria ordinarietà: la famiglia, il lavoro, il senso del dovere.
C’è qualcosa di medioevale nella congerie di acqua, terra, pietra e lamiere che punisce l’incolpevole, sacrificandolo per un merito e non per una colpa. Un imperscrutabile disegno divino per chi crede in un dio, un’atroce ingiustizia per tutti gli altri.
Giuseppe Liotta se ne va nel fiore degli anni come un fiore reciso ancor prima di sbocciare. E non è retorica, ma crudo realismo. Quanti altri Giuseppe Liotta ci sono nel nostro mondo di sopravvissuti? In un’Italia che ha abolito il lavoro chi è disposto a rischiare per fare semplicemente il proprio dovere? E chi è che lo fa senza sventolare bandiere o farsi bandiera egli stesso?
Giuseppe Liotta, il dottore Giuseppe Liotta, era il simbolo migliore di una forza silenziosa che dà il meglio di sé dietro le quinte, che olia gli ingranaggi di una solidarietà perduta, che aiuta per vocazione senza ricevuta di ritorno. Un signor nessuno che diventa ai nostri occhi un gigante quando improvvisamente non c’è più: perché eravamo distratti, perché ci occupiamo sempre delle stesse cose e delle stesse persone, spesso inutili se non perniciose, mentre trascuriamo il buono che non fa romanzo, il bello che non fa scena, l’utile che non fa audience.
Avvertire la mancanza di uno sconosciuto e soffrirne è il rimorso che ci meritiamo.