Laghi, legno, latte al posto del vino

La Finlandia è quel posto dove la gente fa quello che gli pare facendoti sembrare tutto ordinato, incardinato. Qui puoi piantare una tenda dove vuoi, pescare senza chiedere il permesso in uno dei quasi 190.000 laghi (a dispetto della definizione di “terra dei mille laghi”), puoi illuderti che questi specchi d’acqua siano tutti “nordicamente” puliti facendo finta che le industrie della carta e del legno non li abbiano inquinati, e a pranzo puoi bere persino il latte freddo al posto dell’acqua o del vino. Opzione, quest’ultima, abominevole per noi italiani ma tutto sommato plausibile se si considera che questi sono soliti bere acque aromatizzate che dalle nostre parti sarebbero vendute solo in accoppiata col Gaviscon: io stamattina incautamente ne ho assaggiata una alla mela e il resto se l’è sbrigata con gran soddisfazione la mia ernia iatale.
In Finlandia, come vi ho detto, ci sono arrivato dalla Norvegia e le differenze sono state subito evidenti, almeno dal punto di vista stradale e orografico. Niente più rilievi, niente più curve ma interminabili rettilinei, niente più tunnel né gallerie ma dossi all’infinito. Qui le ruote delle moto si consumano in modo drammaticamente uniforme, per via dell’asfalto molto ruvido: in pratica diventano quadrate (un compagno di viaggio ha dovuto cambiarle dopo Oulu perché, anche a causa di una frenata impegnativa, il battistrada si era ormai esaurito).
E poi le persone, tenuto conto che la Finlandia ha più o meno lo stesso numero di abitanti della Sicilia con un territorio tredici volte più ampio. Noi terroni d’Europa generalizziamo chiamandoli tutti scandinavi, come per accomunarli in un’oziosa visione geografica. Invece dovremmo tenere a mente che il mappamondo ci dice di un popolo quanto l’insegna di un ristorante: per giudicare bisogna superare l’ingresso e guardarsi intorno, conoscere, assaggiare. In realtà un finlandese è molto diverso da un norvegese: innanzitutto non è scandinavo per lingua e cultura. Poi il norvegese è considerato il montanaro della zona, semplice (estremamente) e rude, con risata franca ma senso dell’umorismo non abbondante, al contrario del danese (che è il più moderno e aperto, per definizione strisciante e non confermata). Il finlandese è diverso anche fisicamente, i suoi tratti somatici sono meno europei, il fisico è più largo e piantato, e in generale pare che il suo sguardo volga più a est che all’Europa sottostante.
Il cibo comunque è una bandiera comune nonostante io, per via del mio latente vegetarianesimo, sia poco attendibile in tal senso. Salmone ovunque (l’ho mangiato, well done, e mi piacque in quanto “pesce non a forma di pesce”) e insidiosissimo pane all’aglio (uno dei motivi per cui questo rischia di non essere un viaggio per coppie).
Insomma il grande nord è un insieme di piccoli nord, tutti diversi anche climaticamente. Oggi, arrivando da un po’ più su, dopo 600 e passa chilometri mi sono trovato a Helsinki in un clima siciliano, con tanto di traffico caotico e 26 gradi abbondanti. Nulla di che se non fossi stato abbigliato da spedizione al Polo, con quattro strati addosso e noiosissimi ma indispensabili accessori tecnici (pensate a quanto possano essere scomodi i guanti e il casco integrale col sole che vi martella a ogni metro). Mai avrei pensato di fare una doccia fredda in Finlandia. E invece.

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Capo Nord, il freddo che scalda

Sono seduto al tavolo dell’Hotelli (non è un refuso) Inari, a Inari in Finlandia. Alla mia sinistra c’è una finestra che dà sul lago. Mentre sorseggio una birra sento un rumore, lì fuori. È un idrovolante che ormeggia con la stessa facilità con la quale ho parcheggiato la mia moto, venti metri più in là. Due tipi scendono al volo e me li ritrovo poco dopo nel tavolo accanto.
È tutto così incredibile a queste latitudini o sono io che mi sono incastrato in un’allucinazione da “mal di Nord”? Non è facile trovare una risposta se sei reduce da due giorni in cui non sei arrivato, ma sei allunato in un posto incredibile.
Provengo da Capo Nord (Nordkapp) è ho addosso le sensazioni di un motociclista che ha imparato che nulla è compiuto sin quando non si tira giù il cavalletto. Ma il bello sta in questo tremendo contrasto tra ciò che passa davanti e ai lati del tuo casco, mentre corri sul nastro di strada che cambia colore a seconda del cielo (quasi che fosse specchio), e ciò che prende forma quando ti fermi e rimetti le gambe al posto delle ruote. Capo Nord e il suo fascino estremo sono anche (e molto) la strada da percorrere, le intemperie da superare, la forza da trovare per galleggiare sul vento freddo e sull’asfalto che qui consuma pneumatici come se fossero burro in padella. I centomila metri che precedono la selvaggia rupe sul Mar Glaciale Artico – sempre dritto in fondo, dopo duemila e passa chilometri, c’è il Polo Nord – vanno vissuti come parte integrante della spedizione/missione. Per la maggior parte lunari, veloci e gelidi come il vento che solitamente ti soffia contro, quasi a gettarti un guanto di sfida (e i guanti qui si raccolgono sempre se non altro per motivi climatici). Poi, arrivati al mare, si imbocca il tunnel sottomarino per l’isola di Majeroia e il paesaggio si trasforma. Ci sono spiagge deserte e pietre levigate, rivoli di acqua che solcano la strada e rocce stratificate che sembrano volerti spingere via a ogni curva, c’è un surreale clima balneare senza bagnanti, di grigio multicolore, c’è il Nord che ti aspettavi e che un po’ temevi, con la fascinazione che ne consegue.
Arrivati alla rupe, tutto cambia.
Le foto, l’emozione di essere nel luogo più a nord del tuo continente – tu che vieni dall’estremo sud – lo sguardo fisso al Mar Glaciale Artico che sta centinaia di metri più giù. È un freddo che scalda, una risposta che non vuole domande. È bello per chi ama l’avventura, meraviglioso per chi ama essere cambiato dall’avventura. A dispetto del fatto che sei approdato a una metà turistica che nella sua brevissima estate fa centinaia di migliaia di visitatori, che la differenza la fa come e da dove sei arrivato, che i pochi alberghi nelle vicinanze in un raggio di 30 chilometri hanno la peggiore delle colazioni della Scandinavia (e qui la colazione conta più di una cena).
Ecco perché ora, 370 chilometri più a sud, in questo hotel finlandese sul lago con l’idrovolante parcheggiato alla mia sinistra scelgo di non dare risposta alla domanda: è tutto così incredibile o è un’allucinazione da “mal di Nord”?
Domani si riparte, è questo l’importante.

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Florida, toccata e fuga

La nostra breve sosta a Miami si è limitata a South Beach, causa maltempo. Alloggiamo allo Shelley, un piccolo hotel pulito, con adeguato corredo di sistema di condizionamento rumoroso, che rispecchia i canoni dell’art deco district (190 dollari per due notti, tasse incluse). A pochi metri c’è la spiaggia libera dove l’acqua tiepida del mare lenisce a malapena le sofferenze della calura: il caldo umido di Miami non si evita, si affetta. Il resto è un susseguirsi estenuante di locali a uso e consumo di turisti in gran parte italiani.
Su Ocean Drive l’unico divertimento, a parte fare lo slalom tra i “buttadentro” di bar e ristoranti, è quello di osservare. Osservare questo pianeta del divertimento che gira sulla sua orbita, che batte il suo ritmo e che nello specifico, e non certo per sua colpa, ci vede come “The Others”. Ecco, South Beach nella nostra esperienza è stata una grande terrazza dalla quale affacciarsi per ammirare a distanza lo struscio 2.0. Continua a leggere Florida, toccata e fuga

Sopravvivere a Las Vegas

La parte avventurosa del nostro viaggio si conclude a Las Vegas. Quel che segue sarà premio e ristoro dopo giorni di appassionata avventura (provate a scarpinare su una distesa di sale a 41 gradi all’ombra e senza un orizzonte).
Diciamo subito che a Las Vegas non siamo riusciti neanche a capire come funziona una slot machine: a parte inserire i soldi, schiacciare un tasto (un tempo c’era la leva da tirare), e vedere la moneta polverizzarsi, ci sarà pure un’alternativa meno deprimente.

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L’incanto rovente della Death Valley

Chi vi dice che la Death Valley è soltanto una meta turistica probabilmente è passato dritto lungo la strada 190 per trovare presto rifugio nella civiltà. In realtà la Death Valley è un accordo di meraviglia, disagio e curiosità. Già prima di arrivare al bivio in cui la civiltà si separa dalla sua culla (le stratificazioni geologiche delle rocce della Valle della morte ci dicono della preistoria più di un libro di testo), concedetevi un antipasto di meraviglia. All’altezza di Lone Pine imboccate la strada Mountain Whitney Trail, quasi venti chilometri di panorami mozzafiato che vi prepareranno alla follia rovente della Valley. Vedrete le Alabama Hills, colline di pietre impossibili da descrivere e per questo luogo di molti set cinematografici, e un anticipo dei colori e dei contrasti della Death Valley.
Poi tirate il fiato e tuffatevi nel Grande Regno dei contrasti: dalle vette alle depressioni, dalle rocce vulcaniche alle pietre dai riflessi arcobaleno.

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Montagne e laghi, la California che non ti aspetti

È ora di abbandonare l’oceano per addentrarci nell’affascinante entroterra californiano. La nostra prima meta è il Lake Tahoe, ma quel che conta veramente è ciò che sta nel mezzo tra la costa e le vette della Sierra Nevada.
Anche in questo caso la scelta della strada è cruciale. Il navigatore vi consiglierà ora e sempre i quasi 300 chilometri della freeway 80. Non statelo a sentire e scegliete la più lunga e tortuosa 49, in tal modo avrete l’occasione di ripercorrere alcune tappe suggestive del vecchio west.
Sulla via dei cercatori d’oro attraverserete le lande di Coloma, da cui partì la corsa all’oro nell’800, Auburn e soprattutto Nevada City, popolata da giovani mezzi figli dei fiori e mezzi hipster, surfer di montagna, gente strana insomma che mangia biologico in quello che un tempo era un saloon.
Salendo di quota – arriverete intorno ai 2.300 metri – non perdetevi neanche un view-point (perché la rivelazione di questo viaggio è che la California non è solo mare, surf, baywatch e muscle-men; no, la California è terra di incredibili montagne). In alcuni casi bisogna camminare un po’ per allontanarsi dalla strada e raggiungere il terrazzino panoramico. In altri lo scenario vi verrà addosso senza preavviso.

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San Francisco, dove nulla è uguale

La nostra “filosofia del motel” merita una sospensione cautelare a San Francisco, città in cui alloggiare è abbastanza caro. La prima scelta era quella dell’Aida Hotel, poco meno di 150 dollari al giorno. Ma giunti in loco, attraversata la desolazione di un cunicolo che vorrebbe essere hall e soprattutto arrivati davanti a un receptionist blindato in un gabbiotto antirapina, abbiamo optato per l’Eccezione Madre: un hotel a 4 stelle.
Nel calcolo preventivo dei costi mettete sempre in conto le tasse (quasi sempre nascoste nella convenienza ammiccante delle offerte) e la tassa di soggiorno.
Quartieri consigliati: Downtown e Marina.
Per le cose da vedere a San Francisco ci sono le guide cartacee e online. Qui invece trovate impressioni e suggerimenti dopo tre pernottamenti (il lasso di tempo ideale per non stupirsi troppo e non abituarsi altrettanto).
A pelle, dopo le prime ore, la città ci ha mostrato dei rarefatti sintomi di decadenza rispetto all’ultima visita che risaliva a 20 anni fa, Tuttavia la prorompenza di San Francisco si apprezza proprio superando l’ostacolo della prima impressione. La diversità di cui questa città è fieramente baluardo sta nella sua struttura urbanistica e nella sua storia. Qui nulla è uguale, niente tollera termini di paragone. È come se fosse un arcipelago di idee, soluzioni, rivoluzioni e sogni senza ponti di collegamento. Continua a leggere San Francisco, dove nulla è uguale

Carmel e la ricchezza che non disturba

Carmel by the Sea

Risalendo verso San Francisco il dilemma è tra due numeri: 1 o 101. Sono le strade da scegliere. La 1 è tortuosa e romantica, la 101 (one o one) è mitica e rapida. Noi siamo riusciti nell’impossibile, percorrendole entrambe. D’istinto abbiamo preferito la 1 dato che non avevano fretta, ma giunti al quarantesimo chilometro da Paso Robles l’abbiamo trovata interrotta causa frana. E un’interruzione da queste parti non comporta una deviazione di percorso, ma un inesorabile dietrofront: via verso la 101.
Poco male. Senza quest’imprevisto non avremmo potuto visitare posti come Morro Bay, un’insenatura con vista eccezionale (la Morro Rock rende poetiche persino le ciminiere della vicina centrale elettrica, provare per credere); Moonstone Beach, una spiaggia sull’Oceano Pacifico che merita un gran dispendio di foto; Piedras Blancas a San Simeon, con la sua colonia di elefanti marini che danno spettacolo a un passo dalla strada. Da evitare con serenità la deviazione verso Hearst Castle, l’omaggio di un miliardario alla cultura di chi gode degli omaggi dei miliardari.
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Andando per vino in California

Sulla strada per San Francisco una tappa obbligata è Santa Barbara, e già questo potrebbe toglierle fascino secondo la nostra personalissima road map. Tuttavia anche una tappa scontata può diventare interessante se le si attribuisce un tocco di leggerezza. Santa Barbara val bene due ore (beccando il parcheggio giusto), il tempo di sgambettare su lungomare e di gustare uno smoothie sul corso principale. Poi si riparte.
La meta è Paso Robles. Ma prima bisogna drogare il navigatore, che altrimenti vi suggerirebbe la rassicurante rapidità della 101 togliendovi il piacere di visitare centri come Solvang e Guadalupe (Dunes Reserve). La prima è una cittadina popolata e animata da una comunità danese che offre scorsi e suggestioni talmente pacchiani da risultare divertenti: mulini a vento, copia della Sirenetta di Andersen e altre amenità. La seconda va visitata esclusivamente per le sue dune di sabbia sul Pacifico, le più grandi di America.

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Los Angeles, dove tutto inizia (o finisce)

Il museo delle relazioni finite a Hollywood

Prima tappa del nostro viaggio in America, il terzo, è Los Angeles. Una tappa quasi tecnica per due semplici motivi: non è tra le mie città preferite, ma è un aeroporto di riferimento per chi viaggia dall’Italia. Los Angeles è comunque un trampolino da cui lanciarsi per scoprire/capire quest’affascinante porzione di west coast.
Non può essere considerata una città nel senso europeo o mediterraneo del termine poiché per estensione è molto più grande di una nostra provincia e poco più piccola di una nostra regione. Per spiegarla a chi non c’è mai stato mi viene in mente il paragone con New York o Chicago: Los Angeles è orizzontale, una sterminata distesa orizzontale; New York o Chicago sono verticali, spesso esageratamente. Ecco, Los Angeles è la città più diluita che conosca. Esistono altre grandi capitali con quest’ipertrofia. Mosca, ad esempio. Ma laddove l’orografia disperde, l’arte e la storia recuperano. Ergo le immensità della capitale russa non potranno mai dare il senso di desolata orizzontalità di Los Angeles. Ma questo caposaldo americano dello showbiz, dell’opulenza ha una prorompente personalità che non può non affascinare.

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