Invecchiare, istruzioni per l’uso

A bocce, anzi a ruote ferme ho ancora un paio di cose da scrivere prima di chiudere (almeno qui) il diario di questo viaggio a Capo Nord. Sono appunti che ho preso durante quegli undicimila chilometri, la sera a letto prima di spegnere la luce, o in una birreria delle Lofoten, o ancora sul marciapiede di qualche sperduta stazione di servizio. Sono foglietti spiegazzati, alcuni dei quali divorati dall’umidità, che ricompongo adesso comodamente seduto alla mia scrivania: avvertenze valide per me e per chi vorrà fare un viaggio del genere che riguardano aspetti tecnici e non.

Il viaggio di per sé non è per solitari, ma induce gioiosamente alla solitudine. Trascorrere ogni giorno otto-dieci ore alla guida è un’occasione preziosa per parlarsi. Certo, un partner è utile per condividere emozioni davvero forti (amore è soprattutto condivisione, c’è scritto persino sui Baci Perugina), ma a favore della missione solitaria c’è anche un aspetto meccanico: in generale la moto più leggera dà meno problemi, anche se la casistica a me nota smentisce questo principio.

Preparatevi a perdere qualcosa, che sia un oggetto o un pregiudizio sarà il caso a deciderlo. Montando e smontando bagagli ogni giorno, viaggiando con mille piccole cose appese, piegate, nascoste, arrotolate, compresse, è normale che alla fine qualcosa manchi all’appello. E magari può essere un sollievo.

Al contrario di ciò che accade nella vita ordinaria, qui il giocattolo rotto non si butta subito ma si fa di tutto per aggiustarlo: con gran dispendio di metafore. Ci saranno cose e occasioni che avranno bisogno di un giro di nastro adesivo, una scarpa che si buca (le strade norvegesi consumano ruote e suole come grattugie), un compagno di viaggio troppo esuberante, un navigatore satellitare che si allaga, un cameriere scortese nell’ultimo ristorante aperto dell’ultimo paesino di una landa sperduta. Metterci una toppa in questi casi non significa accontentarsi, ma sopravvivere.

Infine lo stupore. Il motivo per cui scrivo queste righe è solo perché lo stupore vive di contagio: nulla è meraviglioso se non si può diffondere, spandere, condividere. Il mio sogno è che qualcuno, leggendo questi diari, abbia voglia di inventarsi un percorso del genere per sperimentare l’antico prodigio dello stupore. Che non è la prova dell’ardimento, non sono tutti quei chilometri a cavallo di una moto che alla fine sembra chiederti pietà, non è il susseguirsi di città e Stati (alla fine ne conterò undici), non è l’olfatto che ti regala una dimensione di viaggio che non conoscevi (in moto gli odori sono come i panorami). No, è qualcosa di più semplice: è un baricentro nuovo che ti dà stabilità anche se sei in bilico su uno scoglio, che rischiara lo sguardo anche se sei al buio, che ti dà la migliore compagnia anche se nel raggio di un chilometro non c’è nessuno. Stupirsi è un buon modo di invecchiare.

Buona strada.

9-fine

Le precedenti puntate le trovate qui.

Capo Nord, il freddo che scalda

Sono seduto al tavolo dell’Hotelli (non è un refuso) Inari, a Inari in Finlandia. Alla mia sinistra c’è una finestra che dà sul lago. Mentre sorseggio una birra sento un rumore, lì fuori. È un idrovolante che ormeggia con la stessa facilità con la quale ho parcheggiato la mia moto, venti metri più in là. Due tipi scendono al volo e me li ritrovo poco dopo nel tavolo accanto.
È tutto così incredibile a queste latitudini o sono io che mi sono incastrato in un’allucinazione da “mal di Nord”? Non è facile trovare una risposta se sei reduce da due giorni in cui non sei arrivato, ma sei allunato in un posto incredibile.
Provengo da Capo Nord (Nordkapp) è ho addosso le sensazioni di un motociclista che ha imparato che nulla è compiuto sin quando non si tira giù il cavalletto. Ma il bello sta in questo tremendo contrasto tra ciò che passa davanti e ai lati del tuo casco, mentre corri sul nastro di strada che cambia colore a seconda del cielo (quasi che fosse specchio), e ciò che prende forma quando ti fermi e rimetti le gambe al posto delle ruote. Capo Nord e il suo fascino estremo sono anche (e molto) la strada da percorrere, le intemperie da superare, la forza da trovare per galleggiare sul vento freddo e sull’asfalto che qui consuma pneumatici come se fossero burro in padella. I centomila metri che precedono la selvaggia rupe sul Mar Glaciale Artico – sempre dritto in fondo, dopo duemila e passa chilometri, c’è il Polo Nord – vanno vissuti come parte integrante della spedizione/missione. Per la maggior parte lunari, veloci e gelidi come il vento che solitamente ti soffia contro, quasi a gettarti un guanto di sfida (e i guanti qui si raccolgono sempre se non altro per motivi climatici). Poi, arrivati al mare, si imbocca il tunnel sottomarino per l’isola di Majeroia e il paesaggio si trasforma. Ci sono spiagge deserte e pietre levigate, rivoli di acqua che solcano la strada e rocce stratificate che sembrano volerti spingere via a ogni curva, c’è un surreale clima balneare senza bagnanti, di grigio multicolore, c’è il Nord che ti aspettavi e che un po’ temevi, con la fascinazione che ne consegue.
Arrivati alla rupe, tutto cambia.
Le foto, l’emozione di essere nel luogo più a nord del tuo continente – tu che vieni dall’estremo sud – lo sguardo fisso al Mar Glaciale Artico che sta centinaia di metri più giù. È un freddo che scalda, una risposta che non vuole domande. È bello per chi ama l’avventura, meraviglioso per chi ama essere cambiato dall’avventura. A dispetto del fatto che sei approdato a una metà turistica che nella sua brevissima estate fa centinaia di migliaia di visitatori, che la differenza la fa come e da dove sei arrivato, che i pochi alberghi nelle vicinanze in un raggio di 30 chilometri hanno la peggiore delle colazioni della Scandinavia (e qui la colazione conta più di una cena).
Ecco perché ora, 370 chilometri più a sud, in questo hotel finlandese sul lago con l’idrovolante parcheggiato alla mia sinistra scelgo di non dare risposta alla domanda: è tutto così incredibile o è un’allucinazione da “mal di Nord”?
Domani si riparte, è questo l’importante.

5-continua

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Elogio di sua maestà il grigio

La prima pausa arriva dopo otto giorni di viaggio ininterrotto al ritmo di 500 chilometri al giorno. Le isole Lofoten sono davvero strane per noi isolani del sud, a conferma che il mare bagna ma è la terra che dà i frutti. Un anziano di Harstad, mentre passeggiavamo sotto la pioggia, mi ha spiegato come sia stata innaturale la settimana scorsa per queste zone: 30 gradi e sole. Loro al sole non sono abituati, figuriamoci ai trenta gradi che conoscono solo quando accendono il forno di casa, e la pioggerella che scende continua in questo periodo la considerano quasi una rassicurazione. “Finalmente”, ha detto l’anziano sorridendo al cielo grigio (di questo colore parleremo più avanti). Nel mentre io mi aggrappavo all’ombrello e lui si lasciava bagnare con la naturalezza di chi un ombrello manco ce l’ha a casa. È un po’ come accade da noi in Sicilia, viviamo sei mesi all’anno ammollo ma nessuno ha un salvagente a casa. Ecco, il nostro salvagente è come il suo ombrello: inutile.
Il grigio. Queste isole ne sono l’esaltazione e, badate bene, non ho mai visto tanti grigi tutti insieme in vita mia. Il grigio qui non è sporco o non-bianco, è semplicemente in ogni colore: nella vegetazione, nel mare, nel cielo ovviamente, nei rari raggi solari che sfuggono alla coperta di nubi che, come una pennellata di vernice lucida, esalta i contrasti anziché smorzarli.
Non vi racconto le Lofoten perché sono uno di quei posti che cambiano luce a seconda degli occhi che li guardano. E poi se c’è un torto che si può fare alla magia, è cercare di recensirla. Vi dico invece che nel giorno di pausa, a parte dormire per nove ore di fila, mi sono dedicato anche alla manutenzione straordinaria dell’attrezzatura, provata da due giorni di pioggia a tratti torrenziale. Solo adesso conosco l’importanza di un tubetto di colla e di un rotolo di nastro adesivo: con questi due oggetti semplici (che ovviamente non mi ero portato appresso) si può fare di tutto. Come, ad esempio, riparare gli stivali. A poco valgono purtroppo per “curare” il navigatore satellitare, semi-annegato ieri nel mezzo di un temporale mentre ci muovevamo da Trondheim. Per quello ci vogliono un asciugacapelli potente (l’altro giorno due amici, inzuppati dalla pioggia, hanno mandato in tilt il sistema elettrico della loro stanza per abuso di phon) e una buona dose di fortuna. Al momento la seconda mi assiste, anche se per accendere il fondamentale strumento mi tocca compiere una sorta di rito (due colpetti a destra, leggera pressione sul tasto, schiacciamento del display con i pollici) e impostare i percorsi è poco meno rischioso di una roulette russa dato che non sai dove effettivamente lui deciderà di portarti, ubriaco com’è di pioggia e fango.
Comunque inserisco le coordinate gps tramite il Mac e che il santo protettore dei Tomtom mi assista.

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Un rosario di curve e fiordi

Il mondo visto da una motocicletta è pieno di odori e di sensazioni rapide ma intense. È la prima volta che mi metto in viaggio per un itinerario così lungo, dodicimila chilometri da Palermo a Capo Nord e ritorno. Eppure alcuni luoghi che visiterò li conosco: un pezzo di Germania, la Danimarca, Oslo, Praga… Ma stavolta è tutto molto diverso: c’è la moto, c’è l’affascinante scomodità di un’esplorazione che a tratti diventa estrema, ci sono le intemperie da affrontare come una prova dell’ardimento. E c’è la scommessa con se stessi di poter ancora stupirsi a macinare chilometri e pensieri in giornate che iniziano alle cinque e mezza di mattina e sgommano via rapide come la mia guerriera a due ruote.
Questi primi tre giorni di viaggio – partenza col gruppo da Innsbruck e percorsi quotidiani di circa 600 chilometri – sono stati trasferimenti e soprattutto sono serviti a testare mezzi e attrezzature. Le strade in Germania sono perfette e su alcuni tratti non ci sono limiti di velocità: con tutte le cautele del caso è divertente concedersi un’accelerata che ti porta sul filo dei 200 all’ora e magari vederti superato da un’auto che ti pare pronta al decollo.
Magdeburgo, Copenaghen, il traghetto tra Germania e Danimarca che costa un occhio della testa e che sembra un grande centro commerciale con ristoranti, negozi e sale giochi. E poi via verso la Svezia col ponte di Øresund, titanica opera di ingegneria resa celebre dalla serie tv The Bridge, e la noia languida delle strade svedesi dritte e lente (perché nulla più sarà veloce dopo l’asfalto della grande madre Germania). Si studiano i percorsi, si decrittano i misteri dei punti gps – qui siamo in piena dittatura dei navigatori satellitari – e soprattutto ci si interroga su come facevamo noi stessi, qualche decennio fa, a viaggiare con cartine e matite. E poi arriva la Norvegia. Si presenta a noi con la sua sontuosa asperità climatica. Il caldo afoso dei giorni scorsi è un ricordo che pare preistoria davanti alle previsioni per oggi. Sette gradi di temperatura e per non farci mancare niente un po’ di pioggia. E ovviamente centinaia di chilometri da sgranare in un rosario di curve e fiordi.

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Il passo avanti

Prima dell’inizio.

Ed eccomi qua a comprimere bagagli sfidando le leggi della fisica, a scorrere la to do list come se sgranassi un rosario, a studiare le istruzioni di un maledettissimo Tomtom Rider che accetta ordini solo da Windows e Windows a casa mia è come Salvini a casa di Saviano. Eccomi a scegliere la musica giusta, a smontare e rimontare gli auricolari del casco perché il mio “senso del pari” non ammette neanche la più impercettibile delle differenze tra destra e sinistra (solo nell’audiofilia in tutte le sue declinazioni, eh).
Si parte. Anzi, quasi si parte.
È il viaggio dei viaggi, che ovviamente cercherò di raccontare qui e su qualche giornale. Ma il racconto è ora un dettaglio.
Palermo – Capo Nord e ritorno. In moto. Undicimila chilometri per il gruppo che parte da Innsbruck (una trentina di pazzi che arrivano da ogni parte dell’Italia), qualcosa in più per me che arrivo dalla Sicilia e che in realtà partirò da Genova, dove sbarcherò. Undici nazioni in 22 giorni effettivi di viaggio (per me poco meno di un mese, con annessi e connessi).
Ci sono viaggi che non si progettano, ma ti chiamano. Mi è accaduto altre volte in passato, e in altri frangenti. Ma erano vite diverse. Stavolta è davvero tecnicamente complicato quindi estremamente eccitante. Ci sono capitoli della vita in cui un passo avanti è importante non per il luogo in cui stai andando, ma per il posto che stai lasciando.
Ovvio, non farò nulla di unico, ma di certo farò quello che serve perché dieci ore al giorno di moto, col mondo che ti scorre intorno, siano uniche per occhi che ne hanno viste di tutti i colori e che, finalmente, vogliono vedere il colore giusto.
Vi racconterò.

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