Senza alibi, una volta tanto

Da Islares a Santoña.
Da Santoña a Güemes.

Strapiombi. Ho sempre avuto un’attrazione per gli strapiombi. Una sorta di vertigine alla rovescia, il vuoto che mi incuriosisce anziché spaventarmi. Nulla a che vedere con una forma di attrazione patologica: di deviazioni psicologiche ne ho ben altre e, ritengo, molto più divertenti.

Questa è una passione che origina dall’infanzia, dall’arrampicata sugli alberi di cui ho già parlato qui, e che ieri ha trovato degno coronamento in un sentiero impervio tra Liendo e Laredo. Poche centinaia di metri scoperti, cioè senza nessun tipo di protezione, ma con un panorama mozzafiato (ho postato qualche filmato sui social). Ci sono costoni di roccia che finiscono sull’oceano Atlantico e laddove sono percorribili – sempre con grande attenzione – regalano emozioni indelebili. Parola di ex arrampicatore.

Anche stamattina il Cammino ha fatto la sua parte nel titillare questa mia attrazione: la partenza da Santoña sul colle del Brusco è uno dei tratti più ripidi che abbia mai percorso, ma la vista sulla spiaggia di Berria, dove ieri ho fatto il bagno, è qualcosa che ripasserò inverno dopo inverno, magari in un noioso mercoledì pomeriggio, inutilmente buio e piovoso (la foto sopra non rende, ma serve per capire). 

Questo per dire che il Cammino apre molti cassetti: alcuni li credevamo chiusi, di altri non conoscevamo manco l’esistenza. Quando ti ricapita di stare solo coi tuoi pensieri, in scenari inauditi, sotto effetto di endorfine per gran parte della giornata? E quando ti ricapita di non avere alibi e poter finalmente affrontare, senza rotture di coglioni, le discussioni più complicate, quelle con te stesso?

L’effetto straniante di questa esperienza, visto come sconvolgimento della percezione abituale della realtà, è ogni giorno più evidente. E non è una cosa facile da spiegare: uno pensa alla vacanza, alla distrazione, al chi se ne frega… No, qui la cosa è molto diversa perché sai che alla fine questo effetto non svanirà col ritorno alle solite cose. Sai che ti darà una tridimensionalità non usuale: parlatene con chi ha fatto ciò che sto facendo io e capirete perché molti di loro si buttano nel Cammino più volte. E non è fanatismo, ma il suo esatto opposto: tolleranza coltivata in modo estensivo, latifondismo delle idee.

Comunque è inutile recensire l’aria, o la si respira o niente. Quindi o vi mettete in marcia oppure accettate la posizione di retroguardia, che è quella di chi guarda gli altri che fanno, di chi accetta una verità ottriata.

Più si va verso Santiago – e siamo ancora distanti – più cresce l’empatia con gli abitanti del luogo. Soprattutto gli anziani, soprattutto nei piccoli centri. A Guriezo un signore sulla settantina mi ha incrociato e mi ha augurato il buen camino di rito. Poi, non contento mi ha agganciato con la mano – una mano fresca e pulita come quella di una persona che prima di uscire da casa si è lavata e profumata con la colonia – e mi ha chiesto da dove venivo. Gliel’ho detto e lui ha cominciato a raccontarmi la storia di un viaggio che lui aveva fatto molti anni fa in Italia, in pullman, da Genova a Roma a Palermo: lì sul ciglio di un sentiero, alle nove di mattina, lui con la sua camicia fresca e il suo sguardo pulito (perché le mani e lo sguardo sono collegati, sappiatelo), e io con la mia maglietta ancora umida di lavaggio e la mia faccia da boxeur senza pugni. Mentre raccontava, nel suo spagnolo fragrante, mi sono incagliato in una ipotesi canagliesca che riguardava il suo viaggio in Italia: l’ho visto su una specie di carro bestiame gommato, tra bancarelle di paccottiglia, ristoranti-truffa, gruppi vacanze al limite del criminale… Poi, però, all’angolo del suo occhio sinistro è apparso un luccichio. Quella memoria gli aveva risvegliato qualcosa. La memoria è un cane fedele a un padrone che non sei tu. La sua stretta si è fatta più forte fino a quando non ha pronunciato una parola che non ho capito ma che temo fosse un nome proprio di persona. Non ho avuto il coraggio di chiedere, di sottilizzare.

Ma chi cazzo siamo noi per esigere sempre spiegazioni? Ci è mai passato per la mente, in quest’èra di ultime parole usurpate, di furto aggravato della ragione, che se non capiamo qualcosa è solo colpa nostra, fottutamente nostra?

Quell’uomo mi ha lasciato andare solo dopo un lungo silenzio, e tra sconosciuti cinque secondi senza una parola, guardandosi in faccia, sono un’eternità che segna. Lui con la sua camicia fresca di prima mattina, e io con una faccia da boxeur in vacanza ora illuminata di un luccichio all’angolo di un occhio.
Che ho nascosto come un ladro, per liberarlo durante il mio Cammino.
Senza alibi, da solo.

(10 – continua)

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Grazie, fuck you, au revoir

Da Pobeña a Islares.

Finalmente il ritorno della bellezza.Dopo i “panorami” di ieri, al confronto dei quali la zona industriale di Termini Imerese è patrimonio Unesco, ho riconquistato la vista dell’oceano. E l’ho fatto seguendo uno dei tratti più belli del Cammino del Nord, quello che ti regala i cinque chilometri incantati del Paseo Itsalur, una passeggiata a strapiombo sull’Atlantico (nella foto sopra) per la quale bisogna pagare dazio: una rampa di 119 scalini a freddo, come inizio di giornata.  

E qui va aperta una parentesi.
In un ambito in cui ogni giorno, bene che vada, si consumano muscoli e articolazioni per cinque-sei-sette ore, la vera moneta non è l’euro, ma il chilometro. Nello specifico, la posada in cui alloggio stasera è, come spesso accade, in una località sperduta. Per cena io posso scegliere: o rifugiarmi in un bar a poca distanza e trangugiare panini decrepiti e birra oppure mettere le gambe in spalla e camminare per due chilometri e mezzo verso una radura che si trasforma in piazza e accoglie tutte le anime di questa montagna vista mare (che stasera sono tutte qui e sono una folla di non più di cento persone). Questa indicazione me l’ha data il proprietario della posada, un anziano che si esprime a gesti e disegni: per indicarmi la via ha scarabocchiato su un foglietto qualcosa di amabilmente incomprensibile (infatti il reperto è già in archivio) e mi ha dato una pacca sulla spalla. Una via di mezzo tra un “buona fortuna” e un “non rompere i coglioni”.

Insomma, decrittato il post-it di Hammurabi, arrivato sul posto e “pagato” i 2,5 chilometri in più che con quelli del ritorno fanno cinque, ho messo mano all’altro portafoglio, quello della lingua. Nel Cammino quelli come me parlano un nuovo esperanto, un tragico incrocio tra inglese, francese, spagnolo e ovviamente italiano. È una vera forma di credito/debito giacché è alla base di ogni scambio sociale, economico, umano. Tra Paesi Baschi e Cantabria l’idioma trasmigra nella gestualità, un po’ come da noi, e il popolo dei pellegrini comincia a ingrossarsi (al momento si cammina ancora in perfetta solitudine, ma temo di essere stato fortunato). C’è il magico incrocio delle lingue, che detto così pare una cosa da film porno, ma che in realtà è qualcosa di molto più complicato e che determina la nascita di una nuova lingua ufficiale: quella della sopravvivenza.

Chiedi “quanto costa” in francese perché le tue vacanze sulle nevi della Savoia ti hanno abituato a slogare il portafoglio. Spieghi da dove vieni in inglese perché “where you came from?” era la frase-salvezza nelle tue prime vacanze da adolescente nel buco nero della vita di relazione. Ordini da mangiare in spagnolo perché “jamon y queso” è più facile da sillabare di “prosciutto e formaggio”. E dici “grazie”, “fuck you”,  “au revoir”,  “bocadillo” nello stesso discorso (capita, eh!) perché le parole hanno un suono e non c’è nazionalità che possa toglierglielo. Musica, null’altro che musica.

Alla fine tu capisci che c’è un mondo anarchico e reale che resiste alle miserie istituzionali dei piccoli duci che vorrebbero costruire la storia in mutande e cellulare da Milano Marittina, e lo fa con l’unica arma che Dio o un dio gli ha dato: viaggiare, ovvero conoscere gli altri, ovvero imparare dalle diversità, ovvero aprirsi anziché chiudersi.

Rideteci pure.
Ma per sicurezza segnatevelo.

(9 – continua)

Le altre puntate le trovate qui.

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Pizza vista nulla

Da Bilbao a Pobeña.

Sono in un postaccio alla periferia di Muskiz, che già Muskiz di suo è un paese arroccato tra raffinerie e asfalto, figuratevi un luogo alla sua periferia. Bevo Estrella Galicia e in un sottofondo che tende all’invadenza c’è una compilation di neomelodici ispanici (che di certo non fanno lezioni di legalità in Spagna, ci metto la mano sul fuoco). Le due ragazze del bar sono gocce di miele in una tana di orsi, non parlano altra lingua che non sia la loro, tipo se dici beer oppure table (the beer is on the table, altro che the book…) loro ti guardano e ridono con una giovinezza alla quale si perdona tutto, pure la presa per il culo.

Sto celebrando la degna conclusione di una giornata da trenta chilometri di asfalto, tra zone industriali e cittadine appena apprezzabili. Questo tratto che mi riconduce all’oceano è forse il più brutto dell’intero Cammino del Nord, ma lo sapevo.

In questo viaggio sto perfezionando una tecnica (per me) molto complessa: sviluppare tolleranza. Sto migliorando, ma non ne sono apertamente orgoglioso. L’opposto che mi riguardava non era l’intolleranza, parola orribile dalle implicazioni indecenti soprattutto alla luce di questi tempi infami, ma qualcosa che ha a che fare con la diffidenza. Sono sempre stato diffidente, nei confronti delle persone, del cibo, della religione. Al limite del negazionismo per fondamentali argomenti tipo le acciughe nella pizza o il midollo nel risotto.

Quindi il gioco è il seguente: data una situazione fisicamente complessa con asperità sociali di vario livello, uno se ne può uscire senza scappare? Oggi la risposta è: si – può – fare (cit)!

Nei postacci in cui sono stato negli ultimi giorni – un paio rimarranno memorabili – sono riuscito a trovare sempre un elemento d’appeal, secondo una vecchia regola di giornalismo. Che dice: critica pure in modo atroce il ristorante, ma occhio ai gabinetti, se sono accettabili scrivi ‘ si mangia di merda, ma i cessi sono ottimi’. In tal modo si evita, anche platealmente, la trappola del pregiudizio. E il pregiudizio te lo metti in sacchetta quando, sono le 21, e hai accanto un giovane che potrebbe essere tuo figlio e fa cena/aperitivo con aranciata e patatine fritte. Aranciata e patatine! Che dalle mie parti gli danno un metadone di nero d’avola e tenerumi.

Per dire, in alcuni di questi piccoli centri baschi si mangia maluccio però, non sai come, c’è sempre un buon gin (da Bombay a salire) col quale concludere una cena al limite del commestibile. Ti danno delle polpette di prosciutto grasse e oleose, ma in compenso fanno insalate sublimi (sanno usare molto bene i peperoni e le cipolle) che da sole valgono il conto. Ti nutrono a panini, ma mantengono uno standard ufficiale di qualità che è quasi una bandiera. Hanno cittadine anche mediocri, ma il wi-fi pubblico è una bomba.

Insomma sfidano quella che tu chiami tolleranza e che il resto del mondo chiama, sottovoce, capriccio.  Stasera sfidando tutte le leggi a me note, ho chiesto una pizza margherita con salame piccante. Il loro salame è il chorizo ed è carnazza per me. Ho mangiato con gli occhi chiusi  e mi è piaciuto come un peccato mortale amnistiato.

Il Cammino è anche questo.

(8 – continua)

Le altre puntate le trovate qui.

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Coraggiosi e/o kamikaze

Bilbao.

Con l’arrivo a Bilbao assaggiamo la città. E Bilbao è pure una città particolare. Piccola e compressa, non ha spazi liberi, è tutta scale e salite (le salite, ah!) tranne il lungofiume, ha un bel centro storico in cui è divertente sbevazzare, e ha il Guggenheim. Il Guggenheim è la pietra angolare di un ragionamento culturale che ha diviso non soltanto una nazione. Bello e controverso, il museo è l’investimento di una comunità (è stato realizzato esclusivamente con fondi baschi). Può piacere o meno – a me fa impazzire – ma comunque  attrae attenzione, ergo fa il suo lavoro.

Il Guggenheim è ciò che è moderno e coraggioso, ciò che è stato portato avanti grazie all’innovazione, che è arte più antica e più genuina di quanto si pensi. È soprattutto una colossale scommessa urbanistica, concettuale. In pratica è una spremuta di quel che manca nella mia terra dove le scommesse sono affidate a kamikaze culturali e vige la dittatura del “colpa tua, merito nostro”.

Tra qualche giorno lascerò la terra basca per entrare in Cantabria. Magari la smetterò di interrogarmi sulle origini misteriose di questo popolo. In tutto ciò risento di una strana sindrome che ha una componente genetica. Quando mio padre viaggia ha una singolare ossessione: capire come minchia campa la gente di quei luoghi (io che ho viaggiato con lui, vi assicuro che può mettere a dura prova il sistema nervoso quando, analizzata l’economia del luogo, lui tira fuori un “sì, però…”).

Ecco, io sono così per le origini, le beghe dinastiche, il bilancino della storia o addirittura della preistoria. Ora immaginate quanti pensieri, discussioni con poveri malcapitati nell’ora cruciale, quella dell’aperitivo, ho inanellato per analizzare gli albori di un popolo, quello basco, che nessuno conosce: la lingua non ha nulla di europeo, c’è chi dice che discendano dai sumeri; i più fantasiosi (che vorrei avere a cena almeno una volta alla settimana) fanno un collegamento col mito di Atlantide.

Insomma, forse a buon diritto, i baschi si sentono e sono altro. Li ho frequentati e, tastandone la fierezza altera e magari scostante, credo che l’indipendenza alla quale anelano sia una sorta di contentino: non è solo la Spagna che gli va stretta…

Insomma, oggi ho camminato poco sulle mie gambe (solo 10 chilometri) e molto su quelle della coscienza civile. Vorrei che la mia Palermo, che è più grande e più cruciale nello scacchiere del mondo attuale,  imparasse a essere fiera e coraggiosa. L’innovazione vera non dà mai consensi facili – nel mio piccolo ne so qualcosa – ma richiede una continua dose, anche omeopatica, di coraggio. Il coraggio non di chi innova – quella al limite è sana incoscienza – ma di chi glielo consente.

Ok camminiamo.   

(7 – continua)      

Le altre puntate le trovate qui.

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Chi si è fregato le discese?

Da Markina a Guernica.
Da Guernica a Lezama.

Sono stati due giorni di montagna. Di salite e discese e di quel calcolo complicato che non torna mai: sono misteriosamente più le prime delle seconde. Mi sono sempre chiesto, soprattutto nelle ultime 48 ore, dove vanno a finire le discese che mancano?

Che poi si fa presto a dire discesa. In realtà chi mastica un po’ di montagna e di corsa in altura sa che le discese ripide sono più faticose delle corrispondenti salite. Ed è anche una bella metafora, se volete. Spendiamo una vita evitando la fatica che ritroviamo proprio laddove non credevamo di incontrare: beh, take it easy.

Ho camminato per giornate intere senza incontrare anima viva. Questa prima parte del Cammino del Nord è scarsamente popolata, per fortuna. La stragrande maggioranza di quelli che dicono di aver fatto il Cammino di Santiago (come molti politici di ieri e di oggi, ad esempio) in realtà hanno percorso solo gli ultimi chilometri. Le poche occasioni di socializzazione sono quelle della sera, quando si torna a un barlume di civiltà (ci sono tappe in luoghi inesistenti ma affascinanti) e lì viene fuori la forza subliminale del Cammino nella catalizzazione dei rapporti umani. Ci si riconosce senza essersi mai visti, ci si affianca senza presentazioni. Un paio di birre, i piedi nudi, qualche sedia che si aggiunge e si socializza. Ma in modo completamente diverso da quello consono. Il Cammino è una way of life che toglie fronzoli e accende gli occhi della mente. Ho incontrato storie inaudite, ognuna delle quali varrebbe un libro o un film. O una preghiera, per chi ci crede.

C’è il ventenne olandese che è indeciso tra le sue due passioni: la musica o la finanza. È in cammino per capire quale sarà il destino che lo aspetta, e non state qui a banalizzare che potrebbe fare entrambe le cose perché nella sua visione non esiste il pannicello caldo. O musica o numeri. Way of life.

C’è il grafico pubblicitario spagnolo, felicemente sposato e altrettanto felicemente da solo in cammino, che insegue un’ idea di cui non ha idea. Una specie di hippy con iPhone e sandali che mi chiama hermano per via dell’età e dei capelli: l’una aumenta, gli altri diminuiscono. Siamo quasi coetanei, ma lui ha fatto più e meglio di me. Way of life.

C’è poi una ragazza francese che lungo questi chilometri sta decidendo il destino suo, della sua famiglia e di una comunità. Ha un buco nero da colmare o da richiudere. Nella vita di chi racconta credo che non ci sia nulla di peggio che dover scovare l’orrore nella bellezza, e la storia di questa donna mi accompagnerà per sempre. Lei è l’unica di noi a sapere chi si è fregata la sua discesa.
Way of life.

(6 – continua)  

Le altre puntate le trovate qui.

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Se il vitello si dà arie

Da Deba a Markina.

La questione è semplice e spiazzante. Le distanze tra una tappa e l’altra vengono stabilite dalle guide (di cui avremo modo di parlare nei prossimi giorni) prendendo come punto di riferimento gli albergue per pellegrini. Io non sono un pellegrino, almeno nel senso classico. Lo spiego una volta per tutte, dato che alcuni me lo hanno chiesto sui social. Sono un camminatore laico, uno che sta sperimentando su se stesso un’esperienza speciale: non ho un’illuminazione religiosa canonica e non me ne frega niente della benedizione finale. Il mio dio non si perde in dettagli turistici. Inoltre non dormirei mai in una camerata insieme con altre sei-otto persone, non mi laverei mai in docce comuni e tantomeno mi metterei a turno per andare in bagno: per giunta in vacanza. Ditemi quello che volete, ma dopo aver scarpinato per una trentina di chilometri ci mancherebbe solo dividere il sonno con una banda di russatori e fare la doccia tipo servizio militare. Sarò capriccioso e snob, ma ho (ancora) un discreto livello di amor proprio.

Gli albergue quindi. Sono il punto di riferimento del Cammino (degli altri). E, rovescio della medaglia, i miei hotel e B&B sono abbastanza distanti dalle rotte ufficiali. Ciò spiega la cosa molto semplice e spiazzante di cui sopra: più chilometri da percorrere.

L’esempio di oggi è chiaro. Da Deba a Markina avrei dovuto percorrere 24 chilometri e 700 metri. Ne ho percorsi 32 e 250. Occhio, otto chilometri in più in montagna significano almeno due ore di cammino che non ci dovevano essere. A tutto ciò si aggiunga che la tappa era una delle più dure, dato che si sale in altitudine e che dall’ottavo chilometro si viaggia in autosufficienza perché non ci sono più ristori e fonti d’acqua. Insomma, roba da farsi prendere dalle visioni: col tempo che cambia da pioggia a sole, la temperatura che si impenna in un fiat da 18 a 30 gradi, un bivio cruciale preso alla cieca con conseguente errore di percorso (prezzo da pagare: due chilometri in più), un unico essere umano che incontri in tutta la giornata e che invece di darti una dritta su come ritrovare la via smarrita ti comincia a rintronare di minchiate, perché ha scoperto che sei siciliano come un suo amico, tale Calogero, che da quelle parti ha messo su un’industria specializzata nella conservazione del pesce e bla bla. Che a me fa pure schifo, il pesce conservato.  E poi, ciliegina sulla torta, la visione arriva. Un vitello esuberante  blocca un sentiero stretto e viscido. Tu gli dici: togliti da lì, che figurati io manco ti mangio, se tu fossi un asparago potresti temere, togliti da lì ripeto, e poi non sei manco un toro. E invece quello ti guarda e ti ricorda, cretino che non sei altro, che hai una maglietta rossa, uno zaino pesante sulle spalle, solo due zampe e gli occhiali appannati per la fatica. Ebbene sì, il vitello poteva chiudere la partita con una sventagliata di coda. Invece mi ha guardato sbuffando mentre, come un ladro, strisciavo su una parete fangosa a pochi centimetri dal suo orifizio più allarmante.

Pensiamo sempre a finali avventurosi per le nostre vite. Mai che ci scappi il timore, pure reale e fondato, di restare fulminati dal peto di un vitello. 

(5 – continua)  

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Appeal zero, of course

Da Zarautz a Deba.

Il terzo giorno di viaggio, da Zarautz a Deba, è stato faticoso per uno strano fenomeno di addizione. Strano perché mi ha preso alle spalle in questo mood di sottrazione. 

Si sono sommate due forze diverse. Da un lato la fatica accumulata ed esasperata dalla mancanza di recupero. Dall’altra una soave forma di assuefazione alle cose che normalmente ti disturbano, tipo la pioggia, il fango, un muscolo che duole.

La fatica, come i maratoneti sanno bene, è una droga. Le endorfine liberate durante uno sforzo prolungato sono una cocaina naturale che snebbia le idee, fertilizza la creatività, pompa autostima. A proposito di autostima, c’è un divertente siparietto che facciamo con alcuni amici improvvisati, qui durante il Cammino. Ci guardiamo, la mattina infagottati nei nostri mantelli impermeabili con gli occhi gonfi e i lineamenti stanchi (tipo la foto sopra), oppure la sera coi nostri orribili sandali e la nostra maglietta da “tempo libero” (sempre la stessa), e ci diamo voti che convergono in un unico risultato: appeal zero.

Insomma, maschi e femmine, siamo il miglior preservativo di noi stessi. Infatti generalmente ce ne stiamo ognuno per i cazzi nostri, per amor proprio.

L’immagine più sexy che ci si scambia è quella dei nostri piedi dopo che ognuno di noi ritiene di aver sperimentato il miglior trattamento segreto: chi dice vaselina, chi dice burro di karitè, chi dice acqua e bicarbonato.

Tornando alla fatica, qui non c’è una competizione. Nel Cammino la fatica è un investimento, non un dazio da pagare. Perché io non so se ce la farò a percorrere tutti questi chilometri – nessuno lo sa – però so che devo far fruttare ogni passo con questo maledetto zaino che affatica più le spalle che le gambe. E investire costa.

L’assuefazione invece ti intorpidisce, ti incanta. Non senti più la pioggia che ti martella le ossa tipo il tizio della Plasmon e intanto quella lavora sul tuo sistema scheletrico. Non ti curi del fango e intanto quello lavora sul tuo involucro penetrando nelle pieghe più impensabili. Non ti curi del doloretto all’adduttore (che da maratoneta ti avrebbe fatto suonare una sirena d’allarme che avrebbero sentito da qui a Bagheria) e intanto quello sta apparecchiando al tuo fisioterapista una stagione autunno-inverno coi fiocchi.

Ecco l’insieme di queste due forze dà la dimensione dell’eccezionalità di una missione così. Che forma e, come dicono i miei amici, deforma. Gioiosamente.

(4 – continua)

Le altre puntate le trovate qui.

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Invecchiare, istruzioni per l’uso

A bocce, anzi a ruote ferme ho ancora un paio di cose da scrivere prima di chiudere (almeno qui) il diario di questo viaggio a Capo Nord. Sono appunti che ho preso durante quegli undicimila chilometri, la sera a letto prima di spegnere la luce, o in una birreria delle Lofoten, o ancora sul marciapiede di qualche sperduta stazione di servizio. Sono foglietti spiegazzati, alcuni dei quali divorati dall’umidità, che ricompongo adesso comodamente seduto alla mia scrivania: avvertenze valide per me e per chi vorrà fare un viaggio del genere che riguardano aspetti tecnici e non.

Il viaggio di per sé non è per solitari, ma induce gioiosamente alla solitudine. Trascorrere ogni giorno otto-dieci ore alla guida è un’occasione preziosa per parlarsi. Certo, un partner è utile per condividere emozioni davvero forti (amore è soprattutto condivisione, c’è scritto persino sui Baci Perugina), ma a favore della missione solitaria c’è anche un aspetto meccanico: in generale la moto più leggera dà meno problemi, anche se la casistica a me nota smentisce questo principio.

Preparatevi a perdere qualcosa, che sia un oggetto o un pregiudizio sarà il caso a deciderlo. Montando e smontando bagagli ogni giorno, viaggiando con mille piccole cose appese, piegate, nascoste, arrotolate, compresse, è normale che alla fine qualcosa manchi all’appello. E magari può essere un sollievo.

Al contrario di ciò che accade nella vita ordinaria, qui il giocattolo rotto non si butta subito ma si fa di tutto per aggiustarlo: con gran dispendio di metafore. Ci saranno cose e occasioni che avranno bisogno di un giro di nastro adesivo, una scarpa che si buca (le strade norvegesi consumano ruote e suole come grattugie), un compagno di viaggio troppo esuberante, un navigatore satellitare che si allaga, un cameriere scortese nell’ultimo ristorante aperto dell’ultimo paesino di una landa sperduta. Metterci una toppa in questi casi non significa accontentarsi, ma sopravvivere.

Infine lo stupore. Il motivo per cui scrivo queste righe è solo perché lo stupore vive di contagio: nulla è meraviglioso se non si può diffondere, spandere, condividere. Il mio sogno è che qualcuno, leggendo questi diari, abbia voglia di inventarsi un percorso del genere per sperimentare l’antico prodigio dello stupore. Che non è la prova dell’ardimento, non sono tutti quei chilometri a cavallo di una moto che alla fine sembra chiederti pietà, non è il susseguirsi di città e Stati (alla fine ne conterò undici), non è l’olfatto che ti regala una dimensione di viaggio che non conoscevi (in moto gli odori sono come i panorami). No, è qualcosa di più semplice: è un baricentro nuovo che ti dà stabilità anche se sei in bilico su uno scoglio, che rischiara lo sguardo anche se sei al buio, che ti dà la migliore compagnia anche se nel raggio di un chilometro non c’è nessuno. Stupirsi è un buon modo di invecchiare.

Buona strada.

9-fine

Le precedenti puntate le trovate qui.

La realtà che presenta il conto

Gli ultimi giorni di viaggio sono lancinanti nella contrapposizione di sentimenti. Da un lato c’è il gusto di un imminente ritorno a casa, al proprio letto, alle proprie abitudini alimentari, dall’altro il rimpianto per qualcosa che è irrimediabilmente finito. Come se due forze opposte ti tirassero per le braccia: la pasta della mamma e le spiagge delle Lofoten; il tuo cuscino preferito e la rocca di Capo Nord; le geometrie rassicuranti del tuo appartamento e la birra su quel lago finlandese col sole che non tramontava mai.
Ma bisogna avere a che fare con la realtà, che se ne frega del sentimento e, come l’oste, chiede sempre il conto. La visita al campo di concentramento di Auschwitz e a quello di sterminio di Birkenau ha segnato fortemente il mood di questi sgoccioli di vacanza. Che ovviamente non è mai stata vacanza in senso classico, ma esperienza, prova, avventura: altrimenti me ne andavo al mare a sollevare cocktail, attività peraltro nobilissima.
Avevo avuto occasione di visitare il campo di Dachau, qualche anno fa, ne avevo tratto l’orrore che serve per vincere la battaglia contro le nostre miserie quotidiane. Auschwitz e Birkenau sono un passo avanti verso il baratro, sono la crudeltà nella quale immergersi non solo per esplorare l’abisso di un genocidio, ma per capire dove questo mondo ci vorrebbe portare e dove, costi quel che costi, non dobbiamo mai più andare. Sono insomma una chiave di lettura di tremenda attualità poiché la storia delle atrocità non va mai declinata al passato.
La realtà è anche fredda meteorologia. La Repubblica Ceca in questo periodo ha piogge a chiazze, cioé a compartimenti scientificamente separati. Tipo, sei in autostrada e ci sono 34 gradi. Un chilometro dopo incontri un acquazzone e la temperatura scende vertiginosamente a 17 gradi. Un altro chilometro più avanti torna l’afa e così via sino a quando non ci fai più caso e il microclima dentro il casco diventa simile a quello di una serra del pomodoro di Pachino.
Va detto che le bizze del tempo sono una costante di un viaggio del genere, dal sud al nord dell’Europa, ma – non è un segreto – va detto anche che sono più sopportabili quando si è lontani da casa. Così, con una forte perturbazione in arrivo stasera abbiamo deciso di anticipare il rientro di un giorno. Siamo in tre e io ho il navigatore fuori uso. La tappa di domani è Praga – Chiusa, 640 chilometri: sin quando si guida e non si nuota va bene. Poi sarà la volta di Genova con la nave per Palermo. E lì l’acqua finalmente sarà al posto giusto.

8-continua

Tutte le altre puntate le trovate qui.

Dove non puoi rallentare…

Dove non puoi rallentare non soffermarti. La tautologia riadattata sullo scheletro di una celebre frase di Frida Kahlo mi serve per inquadrare questi giorni di trasferimento verso sud. Trasferimento si fa per dire perché comunque attraversiamo nazioni come l’Estonia, la Lettonia, in parte la Lituania, e la Polonia. Sono terre i cui racconti non si colgono in modo intuitivo, come invece è avvenuto fino a ora con i grandi palcoscenici geografici del nord. Qui è tutto più complesso, anche per strategia di viaggio. Da un lato c’è un mordi e fuggi imposto dalla nostra tabella di marcia che ci propina oltre 600 chilometri al giorno per rientrare in Italia in tempi congrui (che ci salvino almeno dal licenziamento), dall’altro c’è un territorio che non si dispiega dinanzi agli occhi ma che chiede un’annessione ai tuoi meccanismi logici o, se volete, si presenta con timida presunzione (un ossimoro dopo una tautologia, azz!).
Dalla Finlandia di Helsinki – che è cosa diversa dalla Finlandia reale dato che Helsinki sta alla Finlandia come New York sta agli Stati Uniti – ci siamo immersi nelle repubbliche baltiche. Un migliaio di chilometri a corsia unica dove le autostrade sono un miraggio e, per quel poco in cui si manifestano, prevedono di default l’opzione dell’inversione di marcia “a vista”. Questo per dire che comunque a ogni minima accelerazione qui bisogna stare davvero sul chi va là: che sia un trattore o un camion di laterizi, sarà la sorte a stabilire chi dovrà tagliarti la strada. Eppure in questa apparente e pericolosa deregulation c’è il paradosso dei paradossi: la presenza ossessionante di auto della polizia stradale. I poliziotti ti fermano e ti multano, ma nel fermarti e nel multarti hanno una dose abbondante di discrezionalità. Esempio. Oggi in Lituania ho fatto, insieme ad altri correi del mio gruppo, un sorpasso in zona ufficialmente vietata (niente di rischioso, ma pur sempre un’infrazione). Una pattuglia mi ha raggiunto a sirene spiegate e il capo, davanti al sottoscritto costernato, ha detto: “Per questa violazione ti dovrei sequestrare la patente per tre mesi”. Io, giocandomi la carta dell’asilo politico: “Giusto, ho sbagliato, ma sono stanco, vengo da lontano. Ha presente? Salvini… la cretinocrazia… Di Maio…”. E quello: “Berlusconi?”.
Io: “Macché, Berlusconi paradiso, heaven…“.
Scherzi a parte, dopo un un paio di controlli via radio il poliziotto mi ha restituito la patente: “Ok, lo dico a te e ai tuoi amici: con la striscia rossa non si supera. Mai”.
“Grazie, vostro onore, eccellentissimo, eminenza…” e via fantozzeggiando. Insomma quasi me lo baciavo.

Dove non puoi rallentare non soffermarti.
Non mi sono soffermato a Tallin, città che si visita in poche ore. A parte qualche chiesa, è tutta una paninolandia. Infatti in serata ci siamo rifugiati in un temibile locale italiano dove abbiamo manifestato indecente ammirazione per un nero d’Avola da supermercato (spacciato a 35 euro) e qualche fetta di Provolino. Roba che a casa lo tieni in frigo per testare le muffe da sottoporre come nuovi vaccini a Burioni.
Non avevo intenzione di rallentare a Riga, ma sono rimasto folgorato dal Baltic Drum Summit e dall’United Buddy Bears. A conferma del fatto che il nettare di una comunità non è solo prodotto dai suoi abitanti, ma anche dai suoi collegamenti. Dopo essermi rifatto gli occhi grazie a tanta attenzione per l’arte popolare (occhio, non parlo di musei o di manifestazioni impomatate ma di grandi concerti e piazze stracolme di genitori e bambini) sono stato costretto a soffermarmi. E in cuor mio ho ringraziato questa città che doveva essere accidentale per questioni di percorso e invece è diventata cruciale per corto-circuiti di ispirazione.
Ho rallentato a Varsavia ma l’ho trovata distante da me. È un po’ come il cielo, ognuno ne ha uno da misurare con gli occhi del cuore. Il cielo di Varsavia, pur bellissimo e terso (che culo!), non ha l’ampiezza che mi serve, almeno in questo momento.

La strada per arrivare sin qui è stata una via Crucis di interruzioni, di trattori, di asfalti deformati, di rettilinei ingannevoli, di autovelox, di cantieri, di pioggia e di sole, di pattuglie di polizia che aspettano te e solo te.
Ora sono stanco. E la stanchezza dopo tanti chilometri ha una strana parentela con la felicità, un po’ come accade col sesso o con la maratona.
Domani sarà ancora Polonia: Cracovia con un pellegrinaggio ad Auschwitz. Lì ho proprio voglia di soffermarmi.

7-continua

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