Tra i molti sentimenti che lastricano di cadaveri la mia strada di relazioni ce n’è uno che conosco solo in quanto vittima. Cioè non lo pratico, ma lo subisco, l’ho temuto e infine sterilizzato.
È l’invidia. È l’unico dei vizi capitali che mi manca: gli altri li conosco benissimo, con varie gradazioni di intensità che, per decenza, qui tralascio.
L’invidia è il sentimento nel quale mi sono imbattuto più spesso, non penso per predisposizione personale ma perché probabilmente è il più subdolo, quello che si annida nell’ordinaria denigrazione. In fondo l’invidioso è uno che, parafrasando Paul Valéry, si consola col disprezzo per una felicità che non ha, una libertà che non si concede, un vantaggio che gli manca. E anziché prendersela con se stesso – sfigato o incapace che sia – se la prende con chi vorrebbe essere, e non sarà mai.  

Al di là degli slogan da camionista tipo “la tua invidia è la mia forza”, in realtà col tempo ho scelto un approccio ecumenico al tema.
Tipo: quando si invecchia si tende a ridicolizzare i giovani, errore da non commettere mai.
Oppure: l’invidia è l’unica trappola che inchioda chi la prepara.
Poi c’è un sortilegio perverso che mi rincuora. Statisticamente l’invidioso è un perdente, è qualcuno che certifica inconsapevolmente la superiorità altrui.

Ho conosciuto molti invidiosi e di altri ho solo subodorato qualcosa, poiché una caratteristica abbinata al vizio di volere essere un altro senza esserlo è la vigliaccheria. Molto raramente l’invidioso si manifesta apertamente: il più delle volte striscia, si mimetizza, mangia fango pur di nascondersi (perché in fondo, lui non lo sa, ma ha vergogna di sé). E in questo umiliante barcamenarsi affligge la sua anima, come una carie maleodorante e antiestetica. Ehi, avete mai osservato attentamente il sorriso di un invidioso?

Di Gery Palazzotto

Uno che scrive. Sei-sette vite vissute sempre sbagliando da solo. Sportivo nonostante tutto.

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