Cento di questi giorni

È sera. La playlist in sottofondo mi regala “What a fool believes” dei Doobie Brothers, un pezzo che mi piace ma non mi entusiasma come tutta la musica dei Doobies. Sorseggio un Rosso di Montalcino e addento un panino alle olive nell’attesa della cena che, per motivi di lavoro, non arriverà prima delle 22- 22,30: ci sono abituato, come ogni giornalista della mia età che ha lavorato, per oltre vent’anni, per un prodotto di carta che si confezionava di notte.
Trascorro scribacchiando le ore che mi separano dal compleanno numero 58. E quest’anno non è un compleanno come gli altri (faccio finta di ignorare che è ontologico che il compleanno sia sempre qualcosa di diverso dato che scandisce il cambiamento per antonomasia). Sì, quest’anno è davvero diverso.
Provengo da una galassia temporale nella quale tutte le certezze sono state frullate, ma non amalgamate: eh sì, c’è un mondo nuovo del quale devo esplorare gli angoli, dopo averne conosciuto solo gli spigoli. Devo fare i conti con una assenza fondamentale e con una emergenza ordinaria, del resto questa epoca Codiv non potrebbe essere anche inquadrata con un ossimoro?
C’è soprattutto la voglia di smettere di misurare il tempo e di godersi un momento che, se non fosse per i tempi, sarebbe bellissimo. Un momento in cui le idee fluiscono alla perfezione, in cui tutto sembra al posto giusto, anche quel libro sbilenco sulla libreria che fa sbiellare la mente di un doc come il sottoscritto, in cui finalmente i conti tornano (tutti: lavorativi, logici, matematici, sociali, eccetera). Poi però ti accorgi che davvero una vita non basta: hai così poco tempo e così tante scemenze da rintuzzare, così tanti errori da rimpiangere, così tanti nuovi affetti da onorare e così tanti traditori da mandare affanculo. Quando, diversi anni fa, ebbi l’ardire di sposarmi, una persona mandò un regalo con un biglietto di involontaria genialità (e sull’involontarietà non ho dubbi): “Cento di questi giorni”. Altro che gaffe, un genio! Involontario e profetico. Era come se avesse dipinto il mio futuro, augurandomi nuove emozioni, nuovi scenari, nuovi rimedi, nuovi rifugi.
E ci azzeccò (ma come ogni genio involontario non lo saprà mai).
Ecco, a poche ore da questo scomodo compleanno a questo penso. A godermi un momento in cui non avrò il tempo per godermela, ma sarò comunque preso da qualcosa di vero, vivo e acceso. Una volta, sempre a proposito di compleanni, scrissi qui una storia che aveva a che fare con gli spazzolini. Oggi sono più propenso a usare gli spazzoloni.

È sera. La playlist finalmente mi regala Thieves in the temple  di Herbie Hancock. E tutto si riallaccia: l’età che avanza, le scelte, la fortuna, i pericoli scampati e le scommesse.
È ora (tarda) di cena. Domani sarà il caso di ripescare quel biglietto di involontaria genialità. O forse di godersela finalmente senza il ronzio di sottofondo.  

Cosimo Scordato, un prete vero

L’articolo pubblicato oggi su Repubblica.

Al suo compleanno c’erano due figure che da sole basterebbero a inquadrare il peso sociale di Cosimo Scordato. Una garbatamente popular: Francesco De Gregori. Un’altra di peso nascosto e valenza manifesta: Nunzio Galatino, presidente dell’Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica.
Ma il rettore di San Francesco Saverio all’Albergheria di Palermo non è figura recensibile di rimbalzo, non è raccontabile per effetti (o effettismi). Questo brillante settantenne è la dimostrazione semplicissima di una cosa complicata: un saggio può essere furbo, difficile il contrario. La saggezza di don Scordato è un incrocio di cultura e passione. La grande preparazione teologica e la curiosità verso l’arte in tutte le sue forme hanno dato corpo alla sua voce anche in momenti complicati, lo hanno aiutato a navigare controcorrente nei canali impetuosi di una città arcipelago dove le mille isole delle diversità difficilmente vedono un traghetto. La sua furbizia è invece il mezzo col quale ha saputo mettersi al riparo dal fuoco di fila che gli si è scatenato contro ogni volta che ha deciso di affrontare una situazione difficile. Quando, ad esempio, invitò la sua comunità a pregare per una coppia di lesbiche che di lì a poco si sarebbero unite civilmente, si mosse con grande abilità in un campo minato. Fece esattamente quello che voleva, sollevò un problema senza mai pizzicare una dottrina che conosce assai meglio dei suoi detrattori.
È questo il metodo Scordato: mai determinazione senza chiarezza, mai coraggio senza preparazione. In altre parole, imprudenza questa sconosciuta.
L’uomo che ha ospitato Franco Scaldati e il suo teatro, che ha narrato la grandezza del Serpotta, che ha portato all’università ragazzi che prima non arrivavano manco alle elementari, che ha aperto alle assemblee cittadine e chiuso alla protervia della malapolitica, che ha inventato un ristorante e che ha usato l’accoglienza come arma contro la discriminazione, è un simbolo di ciò che noi potremmo chiamare globalizzazione della carità e dell’assistenza e che lui chiama più semplicemente mondialità. Dall’Albergheria al Congo alla Tanzania, la tela intessuta da Cosimo Scordato è fitta e senza strappi: una scuola qui, un pozzo lì, un pronto soccorso da un’altra parte. Sempre in movimento. I soldi non ci sono ma si trovano, perché la fiducia è una forma di fede (in Dio, negli altri, in se stessi). Ed è contagiosa. Non c’è isola di Palermo che non lo conosca e che non abbia qualcuno che frequenta le sue messe: borghesi e poveri, ricchi e pregiudicati, martelli e chiodi storti trovano a San Francesco Saverio le porte aperte. A patto che si faccia come dice lui, che conosce bene la differenza tra ascoltare tutti e credere a chiunque.
Nell’epoca degli urlatori social, dell’odio prêt-à-porter, questo prete che si professa orgogliosamente “anti-assistenzialista” è un buon esempio di serena determinazione. Quando gliele cantò al presidente dell’Ars Gianfranco Micciché che difendeva gli stipendi d’oro dell’Assemblea, non steccò una sola nota nonostante si capisse quanto era incazzato: “Non puoi dare a chi è già ricco”, gli scrisse sublimando in otto parole Vangelo e cronacaccia. La sua “Teologia del risanamento” applicata alla situazione di Palermo si rifà esplicitamente alla “Teologia della liberazione” sudamericana: non è parola vuota per soloni e porporati, ma cibo per menti curiose. Qualcosa che potrebbe essere felicemente strong nell’affollarsi di zombie creduloni nella Walking Dead della ragione.

Per quanto tempo è per sempre?

insiemeCome i lettori più affezionati (nonché pazienti) sanno, sono affascinato dallo scorrere del tempo. I maligni dicono ossessionato, ma va bene così. Diciamo che sono particolarmente attento al divenire e alle tappe del cambiamento. Da un lato mi piace che le cose cambino, dall’altro mi fa incazzare che cambino senza chiedere permesso.
A questo penso in questi giorni, in prossimità sempre più cruciale di vari eventi personali (compleanni, ricorrenze affettive, dieci anni di questo blog, eccetera). E ci penso cercando di darmi una regola, un minimo manuale interiore che mi tenga lontano dal trappolone della nostalgia del cinquantenne ex capellone, ex atleta, ex rockettaro, ex giovane insomma.
Probabilmente rimarrò prigioniero di una logica costruita ad hoc, come un abito sartoriale che inguaina e non nasconde, oppure chissà mi scoprirò piacevolmente ingenuo a coltivare nuove speranze, perché le speranze vanno curate come piante delicate, salvo dimenticarsi che con qualunque cosa le nutriate, vanno per i fatti loro (tipo la vite americana che mi regalò mia madre per il balcone e che sparava i suoi tralci in tutte le direzioni tranne che sul balcone stesso). Di certo starò attento a festeggiare il festeggiabile poiché non c’è mai un motivo per non brindare a una sopravvivenza. Che sia di una cosa o di una persona poco importa, sono per le torte di non compleanno e per quel genio di Lewis Carroll che fa chiedere ad Alice “per quanto tempo è per sempre?” e che fa rispondere il Bianconiglio “a volte, solo un secondo”.

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Compleanni e spazzolini da denti

imageTra tutti i vagheggiamenti di cui sono stato preda in questi nove anni e passa di blog, non c’è mai stato un refolo di celebrazione per l’involontario anniversario della nascita del titolare di questo blog. Sarà perché, come dicono i cari Ficarra e Picone, a forza di compleanni si muore. Sarà perché certe date è meglio farle ricordare agli altri e dimenticarsele da soli. Sarà per la finta modestia di chi vive di parole pubbliche e sarà anche perché i tempi cambiano e non c’è un vestito per ogni tempo. Sarà per tutto questo che oggi pianto una pietrina miliare lungo la strada di questo blog e scrivo nel giorno del mio compleanno che è il mio compleanno (il numero 53). Perché devo far pace col tempo che se ne è andato di nascosto e con gli anni sprecati a diventar grande.
C’è un momento nella vita in cui le cose cambiano sotto i tuoi occhi in un fiat: tipo, ti sentivi in un modo mentre ti lavavi i denti e ti sei ritrovato in un altro modo dopo aver sciacquato lo spazzolino. Ecco, quel momento è passato, una, due, cinque volte. E quando le cose cambiano a questo ritmo, vuol dire che sei cambiato tu. Lo spazzolino non c’entra.
Quando i compleanni non si contano più ma si accatastano, vuol dire che bisogna darsi una mossa con la lista di cose da fare. E la lista è una strana lista: va compilata nel tempo, con grande anticipo, una sorta di elenco a futura memoria, perché quando la rileggerai intorno ai 53 o giù di lì ti dirà tutto di te. Com’eri, come volevi essere, come sei stato, come sei e come presumibilmente non sarai.
Pensateci a vent’anni, quando di norma non si pensa a nulla che vada oltre il weekend. Siate parchi di ambizioni e generosi di emozioni (e non scimmiottate Steve Jobs che tanto si muore lo stesso anche se miliardari).

P.S.
No auguri, please. Commenti disabilitati.

Buon compleanno, Pupetto

francesco e geryCi ho pensato su per una giornata. Ho deciso allo scadere del tempo. Oggi, caro Francesco, avresti compiuto 50 anni. Se non ti fossi eclissato in un felice viaggio con la tua Donata – Parigi, le Maldive e altri posti meravigliosi per i quali ti davo puntualmente del “tascio” – saremmo stati insieme a mangiare, bere e ridere, anzi sghignazzare come sempre. Avremmo rievocato le scorribande di una vita da deposti Peter Pan, ci saremmo accoccolati nel presente sotto lo sguardo amorevole e sornione delle nostre mogli, mi avresti proposto l’ennesimo progetto geniale nel quale tuffarci e mi sarei lasciato tentare con la mia solita nevrastenica inconcludenza. Avresti aperto una bottiglia di vino e avrei fatto finta di non accorgermi che era il mio preferito. Mi avresti parlato con la franchezza riservata a un vero amico e non avrei avuto dubbi manco su una delle tue parole, contagiose come il tuo sorriso. Non mi avresti ricordato che c’eri quando gli altri non c’erano, quando avevo bisogno di un disgraziato che mi rispondesse al telefono alle due del mattino e non ti avrei ringraziato per avermi elargito una risata quando a tutto pensavo fuorché a ridere. Non mi sarei sognato di abbracciarti per una frase che mi dicesti quando inaugurasti la sede della tua grande impresa editoriale, indicando una stanza e una scrivania vuote.
Non ti piacevano le smancerie ed è giusto così.
Ci ho pensato una giornata per evitare di inciampare nel banale album dei ricordi, nell’autocitazionismo di chi per commemorare chi non c’è più tende a parlare di se stesso. Se sono caduto in questi errori – e ne ho la ragionevole certezza – ti prego di scusarmi, Francesco caro. Io volevo solo dirti che mi manchi ogni giorno, a ogni virgola della cronaca. E che se oggi sono arrivato a tempo scaduto non è per dimenticanza, ma per prudenza. Volevo scegliere le parole giuste, ma so di aver fallito perché il senso di vuoto non si può recensire, si può solo subire.
Comunque sia buon compleanno, Pupetto.

Il nostro caro Massimo

Massimo Caminita

Massimo Caminita era un musicista che a noi ragazzini, strimpellatori e invadenti, ci faceva sognare. E poi era un amico, fratello di cari amici, figlio di una mamma che ci aveva adottati in blocco, noi, gli amici dei suoi figli. Quando se n’è andato, ci abbiamo messo un bel po’ di tempo per abituarci alla sua assenza, e molti non ci sono riusciti neanche dopo anni.
Non la voglio fare lunga perché certe cose mancano solo a chi le conosce, come le sigarette o un buon bicchiere di vino.
Però una cosa la voglio dire.
Senza Massimo, il nostro mondo ha perso un po’ di musica e un po’ di buonumore.
Buon compleanno, caro.

Scusate il ritardo

Compleanno sette anni

Io la crisi del settimo anno non la conosco. Tutti i miei casini, tutti i nodi in cerca di un pettine da ingolfare non hanno mai avuto a che fare con un anno numero sette. E da zero a dieci, non ho mai valutato un fattore sette: molto più magnetico uno zero o un nove e mezzo.
Sarà per questo, o molto più probabilmente per l’età che avanza, che quest’anno mi ero quasi dimenticato del compleanno di questo blog. Sette anni, appunto.
Devo molto a queste pagine, grazie a esse la mia vita è cambiata professionalmente e non solo. Il sistema di relazioni scaturito da questo blog mi ha portato a nuove conquiste, laddove una conquista è anche saper ammettere di aver preso una strada sbagliata o inventarsi un nuovo motivo di entusiasmo.
Celebrare un anniversario è un modo ingenuo per sentirsi liberi, rispetto al tempo che passa, alle illusioni che tramontano, ai progetti che si affollano nella tua mente. E’ un modo come un altro per fermarsi, guardarsi intorno e, cercando un pizzico di complicità, dire: “Ehi, siamo ancora qui mentre intorno c’è il deserto”.
Ecco, qui la desertificazione delle intenzioni non ha attecchito. E il merito è vostro.
Auguri per questi sette anni insieme. E scusate il ritardo.

Sei anni

Oggi questo blog compie sei anni. Più si va avanti nel tempo, più si ridimensionano i festeggiamenti soprattutto in periodi di sobrietà. Quindi mi limito a ringraziarvi tutti, lettori assidui e occasionali, sodali e dissidenti, complici e sabotatori. Siete una risorsa importante.
Grazie per avermi sopportato in tutti questi anni.

 

Arbore e la tv che non c’è più

I 75 anni di Renzo Arbore sono il compleanno di un artista geniale e garbato e allo stesso tempo il funerale di una tv che non esiste più. Chi ha più o meno la mia età non potrà mai dimenticare un programma come “L’altra domenica” che (insieme a “Odeon, tutto quanto fa spettacolo” dei grandi Brando Giordani ed Emilio Ravel) incise profondamente sul costume del Paese in cui viviamo.
Per la Rai il fatto che Arbore sia in buona salute è un ulteriore motivo di sconfitta: non c’è scusa per averlo tenuto lontano dai palinsesti.
Gran parte dell’intrattenimento di qualità, quel poco che rimane in giro, deve a lui qualcosa: persino le trasmissioni radiofoniche più dissacranti (da “Ciao Belli” a lo “Zoo di 105”)  saccheggiano in maniera più o meno consapevole l’“Alto gradimento” degli anni Settanta.
Oggi Arbore gira il mondo con la sua orchestra. Non mi ha mai fatto impazzire come musicista, questione di gusti. Ma mi manca molto, ancora oggi, quando accendo la tv e vengo violentato da un reality o da un talk show sguaiato.
Era una televisione divertente, quella di Arbore, piena di rimandi e sottotesti che accendevano la mente, era una televisione low cost e altamente fidelizzante. Era – per dirla con un po’ di populismo – una televisione per la quale era giusto pagare un canone.

Per disgrazia ricevuta

noemi letizia

Noemi Letizia dice che la sua amicizia con Berlusconi la penalizza nel lavoro.
Si rifarà con la lista degli invitati al suo prossimo compleanno.