L’articolo pubblicato oggi su Repubblica.
Al suo compleanno c’erano due figure che da sole basterebbero a inquadrare il peso sociale di Cosimo Scordato. Una garbatamente popular: Francesco De Gregori. Un’altra di peso nascosto e valenza manifesta: Nunzio Galatino, presidente dell’Amministrazione del patrimonio della Sede Apostolica.
Ma il rettore di San Francesco Saverio all’Albergheria di Palermo non è figura recensibile di rimbalzo, non è raccontabile per effetti (o effettismi). Questo brillante settantenne è la dimostrazione semplicissima di una cosa complicata: un saggio può essere furbo, difficile il contrario. La saggezza di don Scordato è un incrocio di cultura e passione. La grande preparazione teologica e la curiosità verso l’arte in tutte le sue forme hanno dato corpo alla sua voce anche in momenti complicati, lo hanno aiutato a navigare controcorrente nei canali impetuosi di una città arcipelago dove le mille isole delle diversità difficilmente vedono un traghetto. La sua furbizia è invece il mezzo col quale ha saputo mettersi al riparo dal fuoco di fila che gli si è scatenato contro ogni volta che ha deciso di affrontare una situazione difficile. Quando, ad esempio, invitò la sua comunità a pregare per una coppia di lesbiche che di lì a poco si sarebbero unite civilmente, si mosse con grande abilità in un campo minato. Fece esattamente quello che voleva, sollevò un problema senza mai pizzicare una dottrina che conosce assai meglio dei suoi detrattori.
È questo il metodo Scordato: mai determinazione senza chiarezza, mai coraggio senza preparazione. In altre parole, imprudenza questa sconosciuta.
L’uomo che ha ospitato Franco Scaldati e il suo teatro, che ha narrato la grandezza del Serpotta, che ha portato all’università ragazzi che prima non arrivavano manco alle elementari, che ha aperto alle assemblee cittadine e chiuso alla protervia della malapolitica, che ha inventato un ristorante e che ha usato l’accoglienza come arma contro la discriminazione, è un simbolo di ciò che noi potremmo chiamare globalizzazione della carità e dell’assistenza e che lui chiama più semplicemente mondialità. Dall’Albergheria al Congo alla Tanzania, la tela intessuta da Cosimo Scordato è fitta e senza strappi: una scuola qui, un pozzo lì, un pronto soccorso da un’altra parte. Sempre in movimento. I soldi non ci sono ma si trovano, perché la fiducia è una forma di fede (in Dio, negli altri, in se stessi). Ed è contagiosa. Non c’è isola di Palermo che non lo conosca e che non abbia qualcuno che frequenta le sue messe: borghesi e poveri, ricchi e pregiudicati, martelli e chiodi storti trovano a San Francesco Saverio le porte aperte. A patto che si faccia come dice lui, che conosce bene la differenza tra ascoltare tutti e credere a chiunque.
Nell’epoca degli urlatori social, dell’odio prêt-à-porter, questo prete che si professa orgogliosamente “anti-assistenzialista” è un buon esempio di serena determinazione. Quando gliele cantò al presidente dell’Ars Gianfranco Micciché che difendeva gli stipendi d’oro dell’Assemblea, non steccò una sola nota nonostante si capisse quanto era incazzato: “Non puoi dare a chi è già ricco”, gli scrisse sublimando in otto parole Vangelo e cronacaccia. La sua “Teologia del risanamento” applicata alla situazione di Palermo si rifà esplicitamente alla “Teologia della liberazione” sudamericana: non è parola vuota per soloni e porporati, ma cibo per menti curiose. Qualcosa che potrebbe essere felicemente strong nell’affollarsi di zombie creduloni nella Walking Dead della ragione.