Ho scritto di politica sulla spiaggia

Lo spunto me lo ha dato Francesco Massaro che l’altro giorno ha twittato: “Passiamo la vita a chiedere la password del wi-fi”. Sono reduce da un bel periodo di vacanza in giro per l’Europa e so bene quanto sia importante un buon collegamento internet per chi come il sottoscritto (e come mia moglie) fa un mestiere che sta in bilico sulla rete. Quindi è vero, spesso un buon wi-fi è per noi un elemento determinante nella scelta di un albergo o in genere di una località turistica, perché noi non conosciamo le ferie come normali lavoratori dipendenti. Noi ce le spalmiamo su 365 giorni senza che nessuno ce le debba mai concedere.
Però, occhio a non esagerare.
Il livello di contaminazione telematica delle nostre esistenze è talmente alto da farci perdere il controllo del tempo libero, che va invece custodito, sorvegliato e protetto come se fosse un tesoro personale.  Quindi sì al wi-fi, ma solo se ampiamente giustificato.
La potenza del lavoro tecnologicamente delocalizzato è direttamente proporzionale al disagio di chi non sa darsi orari e scadenze per completare un’opera. Il segreto di una buona gestione delle risorse personali sta nel fare in modo che nessuno sia mai indotto a chiederti: scusa, ma dove ti trovi adesso?
Nel mio piccolo ho scritto da ogni parte del mondo, in ogni stagione e agli orari più impensabili. Ho digitato di politica in riva al mare e di criminalità ammirando un tramonto sulle alpi francesi. Spesso diPalermo ha suonato un magico accordo le cui note provenivano, in quel momento, da Paesi diversi: ergo, io, Giuseppe Giglio e Francesco eravamo altrove, ma nessuno se ne accorgeva.
Ecco perché mi ha colpito quella frase. Perché è vera e perché dà il senso dei tempi che cambiano. Ai tempi che cambiano.

Il complotto mondiale contro il PC

C’è un interessantissimo tema di discussione nel web, in questi giorni. Lo ha lanciato in Italia Paolo Attivissimo sul suo blog, riprendendo la lezione di Cory Doctorow al Chaos Computer Congress di Berlino.
La questione centrale è questa: il PC, inteso come normale computer ordinario, è diventato scomodo per governi, lobbies e aziende, perché non è controllabile. Le macchine generiche su cui far girare programmi piratati o non approvati, con le quali fare qualcosa che non necessariamente debba passare dall’approvazione di Apple o di una qualsiasi autorità politica o economica, sono destinate a scomparire. Al loro posto si vogliono i tablet, le console, i sistemi chiusi che accettano solo “cibo” predigerito.

E’ uno spunto che si ricollega idealmente, anche se da una direzione differente, al concetto di libertà in tempi di tecnologia avanzata al quale avevamo accennato qualche settimana fa.

Ecco il video integrale dell’intervento di Cory Doctorow coi sottotitoli in italiano.

La salvezza dei giornali di carta

Pur tenendo una rubrica sui numeri per Leiweb, non sono tra quelli che impazziscono per le statistiche. Le trovo un po’ noiose. Però ogni tanto forniscono spunti interessanti, ad esempio quando l’incrocio tra i dati è pressoché intuitivo.
Nell’ultimo annuario Istat, ad esempio, ci sono un paio di riferimenti che non possono passare inosservati a chi si occupa di comunicazione e anche a chi svolge il cruciale ruolo di lettore (di romanzi, di quotidiani, eccetera). Continua a leggere La salvezza dei giornali di carta

L’esperimento

Ho trascorso un periodo relativamente lungo in una località di mare nella quale ho portato anche i miei strumenti professionali: un computer e un iPad. E in questo periodo ho provato a gestire la mia vita in modo diverso dal solito: lavorare quando si è in continua tentazione vacanziera è una costante prova di resistenza.
La notizia è che credo di avercela fatta.
Il nostro sistema di relazioni, di convenzioni, di schemi rigidi, prevede il riposo come alternativa netta al lavoro. In realtà – e questo è stato l’esperimento che ho condotto su me stesso – si può diluire il dovere nel piacere a patto di rinunciare a un po’ di quest’ultimo. Al posto di una settimana di completo relax, se ne possono fare tre di parziale relax.
Badate, è una scelta che non è priva di controindicazioni. Ci sarà sempre un momento in cui invidierete gli altri, i vacanzieri veri, quelli che hanno optato per la linea tradizionale, e questo rischierà di pesare sul vostro rendimento. Non dovrete cedere alle tentazioni di allungare gli spazi di riposo a discapito dei momenti dedicati ai committenti. La missione è essere diversi pur garantendo ai vostri datori di lavoro il normale rendimento.
Alla fine della giornata non sarete proprio riposatissimi come tutti gli altri, ma di certo sarete più felici di quelli che hanno esaurito la vacanza prima di voi e che vi mandano sms di nostalgia dall’ufficio.

Il fesso che si emancipa

Cerco di aprire un foglio di Word, ma un messaggio mi spiega che non ne ho diritto perché risulta che alla mia rete è collegato un altro computer che usufruisce della stessa licenza.
E’ vero.
Solo che io quella licenza l’ho regolarmente pagata e ai signori di Microsoft non basta. Secondo loro, un professionista ordinario, non un nababbo, dovrebbe comprare tot licenze quanti sono i membri della sua famiglia collegati a un computer. Una spesa non indifferente, e non per me che ho un nucleo familiare di due persone (pochi ma buoni, eh).
Questo atteggiamento vessatorio nei confronti di chi è in regola (sappiamo tutti che non ci vuole molto a craccare un software) sortisce l’effetto opposto a quello sperato. Loro pensano, poveri illusi, che io spenda altre centinaia di euro per usare , a casa mia, un programma che ho già acquistato una volta…
E’ una vecchia regola: prendi un fesso e fai in modo che resti fesso per tutta la vita.
Solo che io sono un fesso che ha deciso di emanciparsi.

A che serve? Non mi interessa

Ieri ho avuto il primo incontro ravvicinato con un iPad. Di questa bestiola tecnologica è stato già scritto tutto da persone molto più esperte e titolate di me quindi vi risparmio le impressioni per così dire tecniche.
Da detentore di un MacBook Air sono abituato alle forme sottili e alla piacevolezza della tecnologia levigata. Ecco, in questo l’iPad è davvero emozionante.
Nella mezzora in cui l’ho avuto tra le mani, ho suonato, ho aggiornato il blog, ho letto una pagina di un libro, ho cercato una parola che non capivo nel dizionario, ho consultato il New York Times, ho ammirato la scena di un film di guerra, ma soprattutto sono stato molto molto attento a non farmelo scivolare dalle mani. Perché è questo il pericolo maggiore: un oggetto di design, che starebbe benissimo anche da spento in salotto, non è prensile.
L’iPad è un apparecchio che ha un fascino pericolosissimo in persone come me: quello di un oggetto utilissimo che può dimostrarsi assolutamente inutile.

Un libro non è un telefono

Sono ipersensibile davanti a qualunque innovazione tecnologica che abbia tasti e schermo (a eccezione dei telefonini touch screen che confliggono con le mie zampe da orso).  Se potessi, comprerei quote della Apple solo per il gusto di collaudare prototipi e riempire casa mia di arnesi modernissimi, per farne che non so (del resto il vizio – perché di vizio si tratta – non si alimenta di vantaggi, ma solo di controindicazioni).
Eppure la presentazione dell’iPad mi lascia insoddisfatto per una serie di motivi.
Primo. La tecnologia avanzata per molti di noi snob quasi cinquantenni non è show, bensì élite. Le coreografie e i megascreen vanno bene per le convention del Pdl, non per l’ultimo parto artificiale dell’intelligenza naturale.
Secondo. Se un telefono serve anche per leggere libri e giornali, evidentemente ci sono problemi di dimensioni: i libri non sono fatti per infilarsi nel taschino della giacca e i cellulari non devono essere tenuti necessariamente con due mani.
Terzo. In Italia si dice: “Fare le nozze coi fichi secchi”. Cioè, senza i mezzi necessari non si va da nessuna parte. La Apple si muove, con molte buone ragioni,  in un’ottica anglofona che non tiene conto della realtà del nostro Paese dove è quasi impossibile trovare contenuti di qualità, ben assortiti e soprattutto tricolori, per un lettore multimediale come l’iPad. Corriere e Repubblica si stanno muovendo, ma l’immensa realtà delle aziende editoriali locali (che condiziona in modo determinante l’audience) è ancora guidata da direttori col telefono a disco e il televideo fisso a pagina 101.
Quarto. I costi sono elevati. A parte lo strumento (prezzo minimo 499 dollari per la versione base), resta l’incognita delle connessioni telefoniche legate ai singoli gestori. Il che, con i chiari di luna che ci sono dalle nostre parti, significa che per farsi un arnese del genere bisogna ricorrere alla cessione del quinto dello stipendio.
Insomma sono tentato comunque di lanciarmi nell’acquisto (le famose controindicazioni del vizio…), ma aspetterò. Perché in fondo la debolezza nei confronti della tecnologia non è indice univoco di imprudenza.

(Un altro) miracolo italiano

sito pdl

Il sito del Popolo della Libertà con il nuovo primo e unico comandamento del nuovo primo e unico neocristo risorto è da ore irraggiungibile, causa congestione delle linee. Gli italiani sono tutti lì coi loro computerini ad aspettare che qualcosa di gioioso accada, in questo Natale che sa di Pasqua.

Beethoven visto da un computer

Beethoven come non lo avevate mai visto.
beethoven

Sobrietà

scrivere_bene2

Poche parole

di Raffaella Catalano

Il correttore ortografico di Word è sobrio. Anzi astemio.
Non contempla molte voci del verbo “bere”. Provate, per esempio, a scrivere “beviamo”, “bevete”. Li segna come errori rossi.
E non gli piace nemmeno il caffè. Soprattutto non lo ama corretto (anche se in questo caso la grappa non c’entra). Tant’è che propone di scriverlo – sbagliando – con l’accento acuto.
E’ grave. Sì, quell’accento su “caffè”. Ma anche e soprattutto il fatto che un correttore funzioni così, in un programma che costa quanto costa.