Sanremo depressi

TotoCutugno

L’attimino fuggente

di Giacomo Cacciatore

Ormai in Italia ci si accontenta dei piccoli piaceri. Tra questi, l’anticipazione del Festival di Sanremo: chi ci sarà, che cosa ci aspetta, sulla base di che possiamo dirci allegramente depressi già tre mesi prima della kermesse canora più vecchia della nostra Repubblica dell’amore.
A chi non l’avesse letto, lo dico a bruciapelo: torna Toto Cutugno. Emanuele Filiberto canta con Pupo e un tenore (il danno si intitola: “Italia amore mio”), mentre Povia presenta davvero la canzone su Eluana.
Coraggio. Sono previsti anche Enrico Ruggeri, Morgan e l’x-factor Marco Mengoni (e a me piacciono tutti e tre). Basterà?

Altro che piccione

Povia

di Abbattiamo i termosifoni

Dopo “Luca era gay”, canzone sull’omosessualità che aveva scatenato un putiferio a Sanremo 2009, l’ineffabile Povia avrebbe intenzione (il direttore artistico sta decidendo) di cavalcare anche quest’anno, sul palco dell’Ariston, temi delicati e controversi. Vorrebbe partecipare al festival cantando di Eluana Englaro. Con la bagarre e soprattutto con la pubblicità e gli introiti che ne conseguirebbero.
Più che il piccione protagonista della sua “Vorrei avere il becco”, a me Povia a questo punto sembra un avvoltoio opportunista.

Sono sante canzonette

Paolo BonolisErano rimaste solo le canzonette. Il Vaticano si era espresso su tutto: famiglia, politica, presente, economia, futuro, astrofisica, letteratura, cinema, beghe condominiali, carovita, giornali, storia, crimini, giovani, morte, sopravvivenza, malati che non vogliono vivere, viventi che non vogliono ammalarsi, guerra, martiri, sesso e altro enciclopedicamente vagheggiando.
Ora la pulsione (re)censoria dei porporati che si spinge oltre la soglia del tempio dell’italica leggerezza umana, cioè il teatro Ariston di Sanremo, ci conferma che alla presunzione degli uomini “in missione per conto di Dio” non c’è argine.
Se, sul foglio della Santa Sede (e sulle sue fotocopie), si arriva a discettare  a proposito della liceità dei messaggi del Festival della canzone italiana e dei suoi contenuti, il segnale è allarmante.
Vuol dire che serve un Bonolis anche dalle parti di Piazza San Pietro.

Cavolo a merenda (o a Sanremo?)

pfm

L’attimino fuggente

di Giacomo Cacciatore

Nessuno potrà negare che una regola di vita del bravo cerimoniere, organizzatore di serate in compagnia o di menù da cena in piedi, sia innanzitutto il buonsenso negli accoppiamenti. Chi si impegna a creare una situazione conviviale valuterà, prima ancora del tono che intende dare alla serata, la prevalenza del “materiale” umano e mangereccio che ha a disposizione. Sarà tale prevalenza a definire lo spirito dell’evento. Chiamando in soccorso una punta di snobismo necessario (che confina con la ragionevolezza e le migliori intenzioni), sceglierà dunque di riunire vecchi compagni di scuola dalla battuta grassa con nuovi amici capaci di reggere botta. Chi ha una scorta di caviale varierà il menù con un’aggiunta di ostriche, mentre chi si ritrova con pane e olive si butterà sulla bruschetta e il vino corposo. Certo, nulla impedisce di mettere alla stessa tavola fois gras e broccoli, preti e mignotte, ma solo se si ha in animo di vivacizzare la riunione. Il contrasto dovrebbe essere supportato dalla consapevolezza dell’effetto che si vuole ottenere: altrimenti fa rima con disastro, e – parlando del cerimoniere – con impiastro. Il contrasto voluto e ricercato può essere una forma d’arte. Quello che ci sfugge di mano, invece, porta a un pessimo risultato: stridore, imbarazzo generale. Le affinità elettive in minoranza sprofonderanno nella costernazione. Quelle in maggioranza si chiuderanno a riccio. E l’ospitalità offerta dal padrone di casa sarà a dir poco ricordata  come goffa. Inopportuna. E’ la sensazione che ho provato ieri sera quando sul palco di Sanremo sono saliti i musicisti della Pfm a rimescolare le carte ammuffite della “kermesse” canora. Un piatto di caviale tra vassoi di ceci bolliti e bucce di fave, accolto da un applauso in piedi, che mi è sembrato quasi liberatorio, speranzoso, persino rabbioso, e che per un istante ha denudato il festival di Sanremo mostrandone lo stato di salute, l’assoluta ignoranza delle proprie condizioni. La storia di un minuto ha fatto sfigurare ore, anni di brutto spettacolo.  Un pugno di musicisti ha annichilito un’accozzaglia di ugole allo sbando. I cerimonieri l’hanno scambiato per un trionfo. Si sbagliano. E’ stata una zappata sui piedi.

Sanremo e la pancia degli italiani

La vignetta è di Gianni Allegra
La vignetta è di Gianni Allegra

Prima di cadere in un sonno geriatrico da divano, sono riuscito a prendere qualche appunto sulla prima puntata del Festival di Sanremo. Già il fatto che un nottambulo (come me) si addormenti davanti alla tv è di per sé un giudizio. Comunque…
Bonolis e Laurenti. Funzionano meglio nella pubblicità del caffè.
Roberto Benigni. L’intervento è stiracchiato, ma il parallelismo tra Mina e Berlusconi è geniale. E la lettera di Oscar Wilde è sublime.
Dolcenera. Il testo più facile da imparare: otto-nove parole in tutto.
Fausto Leali. Premio retorica per il Terzo Millennio.
Tricarico. “Sono cane, canissimo”, parole sue.
Marco Carta. Il frutto di un cambio merce con Maria De Filippi. Si aspettano (e si temono) i saldi…
Patty Pravo. Abbandona l’armonia, distratta da un pensiero: il bando d’appalto per il restauro dell’ultimo centimetro quadrato di viso.
Miguel D’Escoto, presidente dell’Assemblea generale Onu. Che impressione sentirlo doppiato da Prodi.
Al Bano. “L’amore è sempre amore”. Al Bano è sempre Al Bano. Purtroppo.

P.S. La vignetta di Gianni Allegra non è in tema col post, ma è talmente bella che andava pubblicata subito.