Ma va

Qualcuno si meraviglia perché il figlio del boss Provenzano parla come il figlio del boss Provenzano. Ne scrivo qua.

Internet e Cosa nostra

Dopo le polemiche per i fans di Totò Riina su Facebook e l’allarme del superprocuratore Grasso sulla regia della mafia dietro operazioni di questo tipo, proviamo a immaginare nuovi scenari di criminalità organizzata e informatizzata.
Bernardo Provenzano si dissocia dal suo fan club sul web. Motivo? La punciuta col mouse non garantisce fedeltà.
Matteo Messina Denaro mette finalmente online una sua foto recente. Risale alla prima comunione, ma il volto è oscurato dall’ostia. Immediata la reazione della magistratura: il prete, oggi ottantenne e affetto da incontinenza biblica,  è arrestato per favoreggiamento. Viene rinchiuso in una piscina vuota.
Il magistrato Gian Carlo Caselli denuncia l’ennesimo calo di tensione: gli si sono bruciati già un Mac, due Pc e una Playstation 2.
Il giornalista de la Repubblica Franco Viviano, travestito da Bill Gates, riesce a infiltrarsi nella farm telematica di Cosa nostra, allestita nel gabinetto di una baracca nelle montagne di Corleone. Lo tradisce il cedimento di un etto di cerone che, staccandosi dal viso, rivela il colore scuro della pelle. Si salva  solo perché inventa di essere un giornalista di Libero.
Il Giornale di Sicilia riapre, dopo un lustro, il suo sito web. Si schiantano i server dell’Ucciardone e dei Pagliarelli. Una delegazione di deputati del Pdl va in visita dai detenuti portando torte farcite di modem.
Il Parlamento approva una legge che declassa gli agenti della Polizia postale a spazzacamini. Dal momento che il numero totale dei camini in Sicilia è inferiore a quello delle discariche, gli agenti sono riconvertiti in netturbini.

Provenzano e i veri mascalzoni

Per anni la mafia è stata silenzio e azione, un micidiale connubio di pazienza e crudeltà. Boss, semplici affiliati, familiari non hanno mai sprecato parole per difendersi, rimproverare, attaccare. A parte rare eccezioni “di rango”: Riina che se la prendeva con Violante, Caselli e i comunisti; Bagarella che tuonava contro “i partiti che ci strumentalizzano”.
Le parole possono essere pietre, ma in fondo le pallottole sono più efficaci. Del resto la mafia non ha mai pensato a un’intifada: se proprio voleva concepire un’azione corale di “resistenza” piazzava qualche quintale di tritolo per strada e buonanotte ai suonatori.
Ora sembra esserci un singolare cambio di strategia. I figli del boss Bernardo Provenzano concedono un’intervista a un trittico di giornali: la Repubblica, la Stampa e il Giornale, e non vi sfuggirà la trasversalità di questa scelta, da sinistra a destra il pubblico è garantito.
Il succo del messaggio affidato agli inviati dei tre quotidiani è questo: “Basta con questa mascalzonata del gossip sulla nostra famiglia”. Traduzione: c’è chi ci ha rotto i coglioni pubblicando le lettere private tra noi e nostro padre quando lui era latitante.
Bersaglio degli strali è il mensile “S” che nel numero in edicola racconta i segreti di famiglia del superboss.
I parenti del mafioso parlano, elucubrano davanti ai taccuini, si aprono: ecco il cambio di strategia. Attenzione però, non sono i protagonisti a rendere eccezionale questo evento, quanto l’ambito, il coro. I giornalisti che raccolgono la “preziosa” testimonianza infatti amplificano l’attacco frontale a un organo di informazione senza preoccuparsi di scremare, puntualizzare. Non so quanto pesino i virgulti del superboss nell’organigramma di Cosa Nostra, né conosco le loro reali intenzioni. So però che Palermo non è Paperopoli e che la Repubblica, la Stampa e il Giornale non sono il Papersera.
Sarebbe bastato corredare l’intervista con un corsivo (non dico un fondo!) in cui si suggeriva come gustare la pietanza ammannita dai Provenzano che, tra l’altro, spiegano il fenomeno mafioso in modo non dissimile da come lo raccontò il boss Luciano Liggio a Enzo Biagi nel 1989. E che fanno passare Falcone e Borsellino per poveri fessi, giudici “immolati sull’altare della ragion di Stato”.
Sarebbero bastate un paio di righe a margine per ricordare ai lettori più disattenti, e soprattutto a quelli malevoli, che i due magistrati sono stati ammazzati dalla consorteria criminale di cui Bernardo Provenzano è stato capo per decenni e non da una squadra di agenti segreti travestiti da candelotti di dinamite. Sarebbe bastato spiegare che le colpe dei padri non ricadono sui figli per default, ma che i figli non possono fare di quelle colpe uno scudo contro l’evidenza.
Un evento eccezionale, sì, questo muro del silenzio che si sbriciola. Eccezionale per le briciole che messe insieme si fanno pietre. Scagliate da mani che hanno appena deposto penne e taccuini.