Per anni la mafia è stata silenzio e azione, un micidiale connubio di pazienza e crudeltà. Boss, semplici affiliati, familiari non hanno mai sprecato parole per difendersi, rimproverare, attaccare. A parte rare eccezioni “di rango”: Riina che se la prendeva con Violante, Caselli e i comunisti; Bagarella che tuonava contro “i partiti che ci strumentalizzano”.
Le parole possono essere pietre, ma in fondo le pallottole sono più efficaci. Del resto la mafia non ha mai pensato a un’intifada: se proprio voleva concepire un’azione corale di “resistenza” piazzava qualche quintale di tritolo per strada e buonanotte ai suonatori.
Ora sembra esserci un singolare cambio di strategia. I figli del boss Bernardo Provenzano concedono un’intervista a un trittico di giornali: la Repubblica, la Stampa e il Giornale, e non vi sfuggirà la trasversalità di questa scelta, da sinistra a destra il pubblico è garantito.
Il succo del messaggio affidato agli inviati dei tre quotidiani è questo: “Basta con questa mascalzonata del gossip sulla nostra famiglia”. Traduzione: c’è chi ci ha rotto i coglioni pubblicando le lettere private tra noi e nostro padre quando lui era latitante.
Bersaglio degli strali è il mensile “S” che nel numero in edicola racconta i segreti di famiglia del superboss.
I parenti del mafioso parlano, elucubrano davanti ai taccuini, si aprono: ecco il cambio di strategia. Attenzione però, non sono i protagonisti a rendere eccezionale questo evento, quanto l’ambito, il coro. I giornalisti che raccolgono la “preziosa” testimonianza infatti amplificano l’attacco frontale a un organo di informazione senza preoccuparsi di scremare, puntualizzare. Non so quanto pesino i virgulti del superboss nell’organigramma di Cosa Nostra, né conosco le loro reali intenzioni. So però che Palermo non è Paperopoli e che la Repubblica, la Stampa e il Giornale non sono il Papersera.
Sarebbe bastato corredare l’intervista con un corsivo (non dico un fondo!) in cui si suggeriva come gustare la pietanza ammannita dai Provenzano che, tra l’altro, spiegano il fenomeno mafioso in modo non dissimile da come lo raccontò il boss Luciano Liggio a Enzo Biagi nel 1989. E che fanno passare Falcone e Borsellino per poveri fessi, giudici “immolati sull’altare della ragion di Stato”.
Sarebbero bastate un paio di righe a margine per ricordare ai lettori più disattenti, e soprattutto a quelli malevoli, che i due magistrati sono stati ammazzati dalla consorteria criminale di cui Bernardo Provenzano è stato capo per decenni e non da una squadra di agenti segreti travestiti da candelotti di dinamite. Sarebbe bastato spiegare che le colpe dei padri non ricadono sui figli per default, ma che i figli non possono fare di quelle colpe uno scudo contro l’evidenza.
Un evento eccezionale, sì, questo muro del silenzio che si sbriciola. Eccezionale per le briciole che messe insieme si fanno pietre. Scagliate da mani che hanno appena deposto penne e taccuini.
Complimenti, si fa per dire, alle penne imprudenti. Che roba!
Immagino Provenzano: -” figli, sapete che vostro padre non vi ha chiesto mai niente. Mai… e sapete che io non vi farei mai correre un rischio… non l’ho mai permesso… ma oggi figli è arrivato il momento di aiutare vostro padre… ” Provenzano si avvicina al vetro spesso che lo divide dal figlio, e parla sottovoce. Il giorno successivo la stampa è tutta attorno ai fratelli Provenzano -. Cosa stanno dicendo i figli di Bernardo? E a chi si stanno rivolgendo? Perchè minchiate ne hanno dette, e alla Liggio come dice Gery. Sono stati in silenzio per tantissimi anni, ora, disobbediscono al padre. Quello è un messaggio e voglio leggere tra le righe.
Ho leggiucchiato quella concessa a repubblica. Ed è vero: mi sono chiesto dove fosse il cronista. Il resto era la solita accozzaglia di luoghi comuni sulla mafia con relativi alibi “moraleggianti”, balbettamenti di amore filiale, e giustificazioni a vicolo cieco. Un articolo che non sposta nulla nella conoscenza della mafia, ma forse qualche copia di giornale in più.
La mia solidarietà ai giornalisti di S.
Strano, nessuno si scandalizza se una famiglia di mafiosi conclamati attacca una libera testata giornalistica. Al contrario ci si scandalizza quando non si è garantisti con i criminali. Ma che schifo!
Non credo che la pubblicazione di lettere private, nella fattispecie, possa configurarsi come una violazione di privacy. Provenzano era un latitante e i suoi scambi pistolari con i familiari servono per farci capire come si muove un criminale in solitudine, come concilia la crudeltà mafiosa con l’amore filiale, come e se rende tenera la sua corazza.
post pesante oggi e altamente degno della tua penna, ti quoto in pieno. Cristina Puglisi
Qualche tempo fa, il procuratore Messineo usò un’espressione infelice durante una conferenza alla scuola di giornalismo, parlando di cronisti “apprendisti stregoni” (io la ricordo così, potrei sbagliarmi di poco). Nessuno lo contraddisse in quella sede. Si scatenò un putiferio contro il direttore della scuola che non aveva difeso la categoria. Putiferio da cui fu travolto pure il sottoscritto, all’epoca tutor. Il sottoscritto, per la storia, era in un’altra aula a compilare i registi, non udì la frase del procuratore e apprese dell’accaduto dai comunicati e dalle agenzie della sera. Non importò molto quel particolare secondario e fui lo stesso aspramente criticato (non di presenza, ma dietro le spalle, come usa). Perchè ora non si applica la stessa unità di misura, visto che ce ne sarebbe ben donde? I figli di un mafioso definiscono Falcone e Borsellino in un modo che tutti possono giudicare e intimano ai giornali di non pubblicare più materiale scritto alla famiglia, dal loro reverendo padre che, per inciso, era il capo della mafia. E nessuno li contraddice. Io vedo chiarissima la lesione della dignità professionale, pari forse, se non superiore, a quella di cui fu incolpato Messineo. Ma allora perchè chi si incazzò allora, non si incazza pure oggi? Me lo spiegate?
Nel mio piccolo mi incazzai anche allora: http://gerypa.blogspot.com/2008/02/la-lezione-del-procuratore.html
Che Falcone e Borsellino siano stati anche due vittime sacrificali sull’altare della ragion di stato è una cosa che credo purtroppo sia vera. La cosa sconcertante è il taglio dato alla intervista. I figli del boss numero uno di cosa nostra che probabilmente con i servizi segreti deviati era in stretti rapporti parlano con il piglio di affermati sociologi, e mai un’accusa nei confronti di un padre mandante ed esecutore di numerosissimi delitti, che ha messo a ferro e a fuoco la nostra terra. Mi stupisco del ruolo peregrino che ha ormai la stampa: altro che pilastro di democrazia
Interviste indecenti, giornalisti assenti. O peggio: proni.