Quelli che fuggono

Da Irùn a San Sebastiàn.

La prima tappa da Irùn a San Sebastiàn è stata durissima. Salite estenuanti in perfetta solitudine, nebbia sul monte Jaizkibel, borraccia a secco troppo presto. Comunque me lo aspettavo, la mia guida mi aveva avvertito per tempo, soprattutto sull’unica scelta che l’itinerario mi avrebbe proposto. Strada A più corta ma spaccagambe con 300 metri di pendio al limite del ribaltamento (pensate con lo zaino, uff!), strada B più lunga ma senza il picco di fatica. Ovviamente ho fatto la scelta più scriteriata. Transeat.

Verso il 10 chilometro ho incontrato una ragazza di Strasburgo che aveva qualche dubbio sull’itinerario (ci sono tratti soprattutto dopo la prima vetta sui quali si procede quasi alla cieca sul profilo della cresta). Abbiamo fatto strada insieme silenziosamente. Poi, scesi a valle a Pasajes, prima di affrontare un’altra montagna abbiamo fatto tappa al bar per riposare e rifocillarci. È lì che abbiamo iniziato a parlare. E mi ha spiegato che lei è in cammino non per raggiungere, ma per sfuggire. È, questo, un senso comune a molte persone che intraprendono questa esperienza. L’ho ascoltata per il resto dell’itinerario perché, uscita dalla sua solitudine forzata, voleva espellere dei pensieri, come tossine, come cibo maldigerito. Lo ha fatto con calma – qui tutto deve essere lento – ma con una familiarità impensabile in altri contesti. Funziona così questo strano incantesimo fatto di passi e parole, di sconosciuti e di salite, di deserto e pensieri affollati. Un rito antichissimo eppure dirompente, coi tempi che corrono, quello della solitudine intermittente, della conoscenza analogica.

Quel che ho capito oggi, all’esordio spezzagambe di un’impresa niente affatto semplice (almeno per me), è che invece io non fuggo da nulla, ma vago libero pronto intercettare impulsi che magari non conosco. È una sensazione che ho provato poche altre volte, sempre in corrispondenza di situazioni più o meno estreme, e che mi ha sempre dato la spinta che non sapevo di cercare. La fuga l’ho sempre usata in situazioni ordinarie, non mi è mai interessato adottarla come strumento eccezionale: probabilmente perché sono fortunato. Forse ci si abitua a tutto, alla fatica, agli effetti speciali, persino al sentimento. Alla curiosità mai.

A margine, San Sebastiàn è un posto incantevole con la sua spiaggia che sbuca dal nulla dopo sei ore di cammino e la sua pioggia oceanica che ti prende alle spalle proprio quando hai detto “ma che bell’arietta qui, altro che afa siciliana”. La tortilla in compenso è buonissima.

(2-continua)    

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.

Ricordati di desiderare

Quando qualche mese fa ho deciso che avrei fatto il Cammino del Nord mi sono imbattuto in un errore di valutazione. Pensavo ai chilometri, circa 830, a come sarei riuscito a mettere un passo dopo l’altro in quei benedetti 33 giorni senza mai una sosta più lunga di una notte. Pensavo ai pensieri che avrei dovuto scegliere, i più fecondi in prima fila, tutti gli altri dietro. Pensavo alla musica che avrei selezionato, alle playlist imbastite con pazienza in cui ritmo e supporto di meditazione stringono un patto di non belligeranza. Pensavo al quando, al dove, forse – non confessandomelo apertamente – anche al perché.

Pensavo cioè a ciò che avrei avuto davanti, e non a quello che avrei avuto dietro. Più precisamente sulle spalle. Ho coltivato quindi l’illusione che il bagaglio, più precisamente lo zaino di 50 litri, sarebbe stato facile da riempire: quel che c’entra c’entra, il resto vaffanculo.

Erroraccio di valutazione.

Solo alle 5 di stamattina, quando a fatica ho cacciato dentro lo spazzolino da denti come se fosse un ferro da stiro, ho pagato lo scotto di una inusitata filosofia della sottrazione applicata alla compressione fisica.

Scandisco il concetto, anzi lo riformulo per i posteri: fare un bagaglio di 8 chili per un mese di sopravvivenza è la vera impresa, altro che ottocento e passa chilometri a piedi. Perché la scala delle priorità si allunga proporzionalmente alla voglia di libertà. Più cerchiamo la leggerezza, più ci inventiamo un accessorio fondamentale per conseguirla. Se sogniamo il mare, pensiamo al costume, ma subito dopo arrivano la crema solare, la maschera, eccetera… Se sogniamo una passeggiata in montagna, pensiamo alle scarpe da trekking, ma subito dopo arrivano quelle più leggere perché se magari fa caldo e il terreno lo consente… massì, perché non concederci un doppio paio?

Insomma la leggerezza cozza con la reale pesantezza dell’apparato che abbiamo messo su per raggiungerla.

Il Cammino segna la svolta, un cambio radicale.

Otto chili e non rompere il cazzo, ti dicono le tue spalle. Che poi sono loro quelle che dovranno sbrigarsela: i sogni pesano, eccome. Adesso non so se sono riuscito a mettere dentro tutto il necessario, confido nella buona sorte e nello spirito di adattamento che non è mai stato il mio marchio di fabbrica. So però che per prima cosa ho stipato un breve elenco di desideri. Li ho messi lì, nella tasca laterale, quella a portata di mano insieme al taccuino e alla mia musica. Il primo è una sorta di comandamento: ricordati di desiderare.

Qui Irún. Si parte.

(1-continua)

Le altre puntate le trovate qui.

A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.