L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.
Se non ci fossero di mezzo una tragedia infinita e una ferita al cuore dell’Italia, quella delle stragi del 1992 sembrerebbe una storia scritta apposta per essere raccontata. Del resto con l’infinita serie di colpi di scena, con una galleria di personaggi dalla doppiezza cinematografica, col drammatico succedersi di speranze e delusioni, di dubbi e certezze, la solidità del plot sarebbe assicurata. Ma ovviamente una cosa è la realtà, un’altra la finzione. Ed è un bene che la linea di demarcazione sia netta, chiara, giacché è proprio nello stridere di emozioni contrastanti che il teatro produce i suoi frutti: il palcoscenico è il luogo dove queste emozioni convergono, si moltiplicano o si annullano, emergono o si inabissano. È il tempio della libertà, ideale per narrare di libertà che non ci sono (più). Ma è anche una culla dell’emozione dove la fonte di ispirazione meno romanzesca può lasciare spazio al dolore sordo, quello senza più lacrime, al tremendo senso di ingiustizia che viene fuori da ogni singola domanda di verità che non trova risposta.
Siamo abituati alle commemorazioni, tragicamente abituati. Per troppo tempo la cultura, alle nostre latitudini, si è impigrita proponendo scorciatoie anche nobili, ma pur sempre scorciatoie. Siamo un popolo che vive di consuetudini, che tende a navigare a favore di corrente. C’è voluto un lungo lockdown per realizzare che quella per la cultura è l’abitudine più facile da perdere poiché in questo Paese la cultura è considerata una sorta di bene accessorio, una cosa in più, se resta spazio e tempo… In tal modo in un periodo complesso come questo è più facile disabituarsi: perché non c’è nulla di più fragile di un’abitudine che non ha intenzione di sopravvivere a se stessa.
Ecco perché servono più narrazioni che commemorazioni. Perché si può essere ricchi e forti, amati, temuti e potenti, ma senza qualcuno che ti racconta una storia si è semplicemente nudi. Il “c’era una volta” non è solo l’inizio di qualcosa, ma è soprattutto una finestra aperta sul mondo migliore che riscatta la pochezza di quello in cui ci siamo ritrovati a vivere. Forse quello della fantasia è l’unico posto in cui siamo davvero ciò che meritiamo di essere.
Se la convergenza astrale di questi tempi bui continuerà a incrociarsi con l’orgoglio strabico di chi ritiene che contro la criminalità più o meno organizzata servano solo operazioni di polizia, resteremo senza il cibo per la nostra immaginazione. E questo digiuno, credetemi, non si placa con succedanei, giacché la cultura è fatta di materia prima che non ha surrogati. C’è o non c’è. Non è un asparago che, se non lo trovi fresco, puoi sempre reperirlo tra i surgelati.
Negli anni scorsi con Salvo Palazzolo abbiamo scritto due opere-inchiesta per il Teatro Massimo di Palermo, “Le parole rubate” e “I traditori”, nelle quali abbiamo cercato di indagare tra i misteri delle stragi Falcone e Borsellino. Era un tentativo di imbastire un’indagine sul palcoscenico del teatro d’opera più grande di Italia che partiva da un presupposto: nel luogo dell’arte, cioè nel tempio in cui si celebra il primato della fantasia, si può trovare la libertà che serve per provare a evadere dalle prigioni delle versioni preconfezionate.
Era la nostra ricerca della verità. La verità del dubbio.
Ecco il punto. Quando il teatro entra in una dimensione da maneggiare con cura, dove finisce il recinto della cronaca e dove si apre il cancello della fantasia?
Probabilmente la risposta sta nella domanda stessa: l’eterna celebrazione del dubbio può essere un modo per evitare di impantanarsi nel fango delle contraddizioni delle versioni ufficiali puntualmente derubricate a coincidenze. Coincidenze che – lo abbiamo imparato soprattutto per le inchieste sulla strage di via D’Amelio – non sono altre che menzogne scritte in anticipo.
Se il teatro, come si dice, è la zona franca della vita, forse lì sarà finalmente possibile ricominciare, rimediare, rinascere. E commemorare finalmente guardando al futuro.