Orfani

La prossima settimana c’è una data alla quale negli ultimi tre anni mi sono preparato con patologica dedizione professionale oltre che, com’è giusto, civile. Ma quella civile, che in qualche modo è collegata al mio mestiere di giornalista, è sempre stata una costante avendo vissuto per questione generazionale in prima fila la stagione delle stragi di mafia.
Come alcuni di voi sanno nel 2017 ho ideato per il Teatro Massimo un progetto di opera-inchiesta che segna una svolta nella serie infinita delle commemorazioni ufficiali di Paolo Borsellino, Giovanni Falcone e Francesca Morvillo, e degli uomini e donne delle loro scorte, vittime che meritano tutte un rispetto che non faccia disparità.

I loro nomi vanno fatti sempre.
A Capaci Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro (vi furono 23 feriti, fra i quali gli agenti Paolo Capuzza, Angelo Corbo, Gaspare Cervello e l’autista Giuseppe Costanza). In via d’Amelio Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina (ci fu un sopravvissuto, l’agente Antonino Vullo).

Data la convergenza inaudita di casini mondiali, in questo anniversario del 23 maggio prossimo venturo c’è un elemento che spettina l’ortodossia antimafiosa. Mancheranno il bagno di folla (spesso orecchiante), le adunate vista telecamera e le sfilate di un potere che in gran parte è gobbo e strabico.

Parentesi sul potere: pensate che in questi 28 anni ci sia stato un solo momento in cui lo Stato abbia scelto di abbandonare la sua “ragion” e si sia deciso ad aprire archivi a liberare verità prigioniere di chissà quale indicibile compromesso? Risposta: mai. Chiusa parentesi.

Chi mi conosce e/o mi legge sa che il complottismo è la mia kryptonite. Eppure è opinione mia (e di Salvo Palazzolo, il collega col quale ho scritto gli spettacoli di cui vi sto parlando) che i diari di Falcone o l’agenda di Borsellino non siano custoditi in un covo di mafia. Perché, da quello che sappiamo, le stragi degli anni Novanta videro la mafia come elemento di tragica e determinante importanza operativa: ma è logico che ci fu una super-regia di cui oggi possiamo delineare l’operatività, senza tuttavia avere quella certezza che ci consentirebbe di voltare pagina. Come un libro, un codice, una nuova bibbia.
Tutto questo per dirvi che la prossima settimana (il 23 maggio alle ore 15) Rai Radio 3 dedicherà uno speciale, nella trasmissione Piazza Verdi, al “Le parole rubate” e a “I traditori”, trasmettendo per la prima volta il dittico in forma integrale. Ci saremo tutti: a parte me e Salvo, il sovrintendente del Teatro Massimo Francesco  Giambrone, gli autori delle musiche Marco Betta, Fabio Lannino, Diego Spitaleri, e Gigi Borruso l’attore che ha dato vita e forma ai nostri dubbi atroci.
Ma non finisce qui: il 23 e il 24 maggio la web tv del Teatro Massimo dedicherà un ricco speciale alle due opere proponendo, tra l’altro, l’indimenticabile interpretazione di Ennio Fantastichini quella sera del 23 maggio 2017 e il videomapping finale ideato dal regista Giorgio Barberio Corsetti (che resta una delle trovate più emozionanti alle quali ho assistito).
Ma io sono di parte e il mio compito è solo quello di avvisarvi.
L’importante per quanto mi riguarda è ricordare a me e a tutti quelli che hanno memoria, come feci tre anni fa su queste pagine alla vigilia della prima de “Le parole rubate”, un concetto semplice: ci vestiamo di parole senza accorgerci che senza non saremmo soltanto nudi, ma orfani. 

Anche le sardine nel loro piccolo…

L’articolo pubblicato su Repubblica Palermo.

Una cosa è certa. Una folla come quella di venerdì sera in piazza Verdi a Palermo non si vedeva da anni. Se la quantità non dice mai nulla del prodotto, almeno dice qualcosa sullo scaffale sul quale quel prodotto è riposto. C’è spazio da riempire, ci sono vuoti imbarazzanti da colmare. Le sardine, con tutto il corredo di metafore volute o no, sono un fenomeno da osservare con grande attenzione. Non serve derubricarle a ennesima mutazione movimentista poiché la rivoluzione politica e sociale che attraversa oggi il Paese rende incompatibile qualsiasi sovrapposizione con altre storie di piazza. Siamo a un punto e a capo, ma la svolta non è garantita: troppi pericoli incombono su quella folla pacifica ed entusiasta, la maggior parte dei quali si annidano proprio nel tessuto connettivo di questa frangia civile e composta.

Il web innanzitutto. Nate e pasturate tramite i social network, le sardine sono già davanti a un bivio: sopravvivere in mare aperto o morire nella rete della Rete. Lo spettro è quello di finire nei flutti dell’illusione grillina (democrazia diretta a mezzo smartphone, un quarto vale un quarto, e via chattando), di venire fagocitati dalla tragica illusione che una ribellione civile si regga su un paio di polpastrelli. La piazza è quella che conta, il contatto fisico, l’essere presenti, la condivisione di sguardi e sospiri. Il resto è onanismo da tastiera.

E poi il ruolo politico. Qualunque atto pubblico che tende a dare un indirizzo, a sostenere un’opinione, è politica. Le sardine non devono averne paura e soprattutto hanno l’obbligo morale di tenersi a distanza di sicurezza dalle sirene dell’antipolitica. Il loro ruolo ideale, in quest’epoca di navigazione a vista, è quello di vedette. Contro odio, discriminazioni, coltivazione estensiva dell’incultura servono anime buone, ma non cuori teneri. Chiedere “toni pacati” (come hanno fatto alcuni di loro) nell’era dell’urlo e della sguaiatezza istituzionali è un felicissimo principio rivoluzionario.

Infine il simbolismo. Ogni movimento ha avuto il suo lenzuolo, i suoi arti (mani, braccia, gambe), i suoi animali di riferimento. Le sardine hanno una forza evocativa di grande impatto, come pesce che vive in banchi molto fitti, che si riproduce tutto l’anno, che è anche un cibo salutare. Ciò che si chiede ai simboli è di alimentare almeno una suggestione. Quella di un movimento arrabbiato ma con calma, risoluto ma con civiltà, potrebbe essere vincente.