I tempi cambiano. E ultimamente sembra che cambino più in fretta. Tralascio le mode (di cui non capisco niente), l’economia (di cui capisco, se possibile, ancora meno) e le tendenze (nelle quali c’è poco da capire).
Politica.
Frequento molti blog: ritengo che, proprio per effetto dei tempi che cambiano, siano il vero termometro di quello che una volta si chiamava sentire comune. Trovo che quelli di sinistra siano più interessanti degli altri. E non per fede politica, quanto per volume di stimoli, contraddizioni, cortocircuiti.
C’è però qualcosa di irritante (per me, ovviamente) nei contenuti, una specie di virus subdolo che scatena tutto il suo potenziale di disturbo a distanza di tempo. Per descriverlo mi ci vorrebbero centinaia di righe, però ci ho pensato e ho trovato una parola, una parola sola, per risparmiarvi una tediosa lettura: disfattismo.
L’accettazione di una sconfitta senza lottare e la conseguente acquisizione di un dato di fatto senza schermarlo dai partiti presi è una malattia endemica della sinistra italiana.
Ecco un esempio che mi pare illuminante.
Nel sanguinoso conflitto tra israeliani e palestinesi c’è una visione univoca della vicenda, politicamente e assurdamente empatica: i buoni sono i palestinesi, i cattivi sono gli altri. Per assioma.
Ora, io non ho alcuna propensione per l’arrogante potenza militare israeliana. Ancora meno per il governo di quel Paese. Però cerco di adoperare una certa prudenza nel giudicare ciò che accade in quelle lande.
La tesi populistica, secondo la quale per giudicare il fallimento di una strategia si allineano i morti dell’ultimo bombardamento, non mi incanta: i morti si contano (e si pesano) sempre, non solo quando stanno da una parte della barricata. Perché gli errori di valutazione sono come le emorroidi: vengono fuori, dolorosamente, quando meno uno se li aspetta. La sinistra italiana, nella sua base più diffusa, ha deciso che i kamikaze, le nefandezze di Hamas e il fanatismo di una ristretta parte dell’Islam sono quisquilie. O peggio, sono semplici adattamenti storico-sociali a un dato di fatto (la prepotenza israeliana). I palestinesi sono perdenti quindi, nella moderna logica disfattista di cui sopra, bisogna accettare la loro sconfitta celebrandola senza indugi, col massimo dell’estremismo. E’ il trionfo negativo del partito preso.
Non c’è un solo dubbio, non c’è mai un riferimento all’impotenza colpevole della sinistra europea, non c’è ombra di un concetto lontanamente affine alla solidarietà, non c’è richiamo a quel valore senza muri e volti che si chiama tolleranza: tutti baluardi del progressismo illuminato. C’è solo l’ultimo orribile missile, che fa strage di bambini in una scuola di Gaza.
Ecco, la sinistra di altri tempi si sarebbe mobilitata per i bambini, gli scuolabus, gli asili, le case, gli ospedali, gli orfanotrofi. Il Veltroni di un decennio fa sarebbe andato subito in Medio Oriente e non altrove. I radicali risalenti all’epoca geologica precedente alle minchiate di Capezzone e al rincoglionimento di Pannella si sarebbero affamati sulle pietraie della Galilea. Qualche pacifista, magari papà di quelli di oggi, che si distinguono per lingua lunga e bandiera facile (o viceversa), avrebbe scalzato gli scudi umani senza pensarci due volte.
Nessuno però avrebbe deciso che ci sono bombe più sbagliate delle altre.