La politica del fare e la politica del dire

via libertà palermo sporca

Un estratto dall’articolo di oggi su la Repubblica.

La distanza tra la politica del fare e la politica del dire si misura col metro. Lo stesso metro col quale si misurano i giardini in abbandono, le ville invase dai rifiuti, le strade sporche, il parco della Favorita morente.
La nuova Palermo di Leoluca Orlando, quella uscita dal tunnel dell’edonismo invisibile di Diego Cammarata, mostra l’illusione di una doppia faccia: da un lato l’impegno per darsi un tono internazionale, dall’altro il disimpegno rispetto alla cura degli spazi comuni. O se preferite: da un lato le candidature a capitale europea della cultura 2019 e a capitale europea dello sport 2017, dall’altro l’inopinata moratoria (come dimostrato dai reportage di Repubblica in questi giorni) della lotta all’incuria.
A Palermo le emergenze hanno condito il piatto della politica che le ha spesso valutate non in termini di gravità oggettiva ma di visibilità. E per paradosso le emergenze più estese e perduranti, quindi visibilissime, sono quelle che pesano meno nell’impatto emozionale dell’amministrazione pubblica. Perché il cuore dell’assessore è assuefatto e non sussulta davanti alle erbacce che soffocano i monumenti, ma rischia un’extrasistole se si fulmina una lampadina alla Zisa Zona Arti Contemporanee. Il che, si capisce, non vuol dire che il Cantiere culturale debba restare al buio, ma che la luce debba vederla anche la villa di piazza Ignazio Florio una volta liberata da cumuli di erbacce e rifiuti. Continua a leggere La politica del fare e la politica del dire

Chissà

L’idea è affascinante.
Anni fa un mezzo di trasporto simile (di cui adesso non ricordo il nome) fu lanciato sul mercato con uno slogan discreto tipo “l’idea più rivoluzionaria per il trasporto urbano”.
Era una specie di bipattino.
Finì nel dimenticatoio ancor prima di essere commercializzato.

Sunshine

La foto è di Daniela Groppuso

Una gita fuori città.
Vestiti pesanti contro il vento freddo.
La compagnia migliore che ci sia.

Meglio di così?

Il rito millenario e la città insofferente

Foto di Daniela Groppuso
Foto di Daniela Groppuso

In tutte le città del mondo la maratona è una festa.
Nella mia vita ho corso un po’ qua e là e quando mi è capitato di avere l’onore di partecipare a una gara ufficiale – sempre come l’ultimo dei dilettanti – sono rimasto affascinato dal ruolo del pubblico.
Dovunque ti incitano, ti chiamano per nome (il numero di pettorale), ti danno pacche: tutti, quando ti vedono passare, ti trattano come un campione, anche se sei piegato dalla fatica, se piangi per i dolori ai polpacci, se sei ultimo, o vecchio, o grasso, o scoordinato. A New York addirittura ti accompagnano con la musica, diversa per ogni strada che percorri.
La maratona è una gara antica come l’umanità, e però non ha nulla di umano. Il nostro organismo infatti non è stato progettato per sopportare un simile sforzo. Però fa parte dell’indole umana la volontà di sfidare i limiti, di vincere le scommesse più importanti, quelle contro se stessi.
Per questo molti corrono. Corrono fino a sfiancarsi. Per meta hanno un numero: 42,195. I chilometri che consumeranno sperando che le loro scorte di glicogeno durino oltre il fatidico 33esimo chilometro e confidando nel sospiro di un vento favorevole.
La maratona è la corsa dell’uomo verso l’impossibilità di un traguardo valido per tutti. Ogni atleta è una storia a sé, ogni passo è una scommessa, ogni goccia di sudore non è mai sprecata.
Ecco perché in tutte le città del mondo la maratona è una festa.
Ieri a Palermo la corsa silenziosa di quegli uomini che sfidano un rito millenario è stata inquinata dalle urla degli automobilisti imbottigliati agli incroci, dai clacson, dai grugniti di insofferenza e soprattutto dall’indifferenza generale.
Vergogna.