Qualche giorno fa su Facebook ho accennato al potere salvifico della nostalgia e per comodità riporto di seguito il post.
Non sono mai stato un nostalgico, ma sto rivalutando la nostalgia. Ne “Alla ricerca del tempo perduto” di Marcel Proust, il narratore assaggia una madeleine che sprigiona un torrente di memorie e in tal modo umanizza l’atto del ricordare a distanza di tempo. Così mi sono convinto a provare qualcosa del genere – tipo ingurgitando un panino con le panelle di una particolare friggitoria – e mi sono arreso dinanzi alla constatazione che la nostalgia è in realta una bella rampa di lancio per il futuro: non solo ci fornisce un’ancora mentale e fisica quando il paesaggio cambia, ma ci fa concentrare su ciò che per noi è più prezioso. Detto questo, sto leggendo un po’ di roba sull’argomento (anche tosta, al limite del pungente) e per i quattro/cinque interessati ci tornerò su prossimamente.
Quindi mantengo la promessa e tiro in ballo una giornalista scientifica, Elizabeth Svoboda, che qui ha scritto di nostalgia parlando di una malcelata vergogna che ci prende quando ci culliamo nei ricordi: “Questo senso di disprezzo per l’esplorazione dei meandri del nostro passato ha una tradizione secolare. La parola “nostalgia”, coniata nel seicento dal medico svizzero Johannes Hofer, è composta dalle parole greche nostos (ritorno) e algos (dolore)”. Solo che Hofer usava il termine per descrivere una presunta malattia riscontrata nei soldati mercenari svizzeri che si struggevano per la patria. Era convinto che i sintomi – tipo attacchi di pianto e perdita di appetito – fossero causati dalla “vibrazione degli spiriti animali attraverso quelle fibre del mesencefalo in cui resiste ancora l’idea di patria”. Poi, per fortuna, le cose cominciarono a essere viste in modo diverso. E tutto andò bene (o meglio) sino all’avvento dei social network quando la nostalgia divenne nuovamente una malattia collettiva: gruppi come “si stava meglio quando si stava peggio”, “cose degli anni settanta che solo chi era bambino negli anni settanta può capire” e via discorrendo hanno più feedback della roba di cronaca.
Quando ricordare diventa un modo comodo per evitare di immaginare, allora siamo di fronte a un pericoloso esercizio di pigrizia. Perché pericoloso? Perché aggirare la nostalgia significa togliersi la possibilità di trovare nuove vie d’uscita quando ci si sente spacciati. Spiega la Svoboda che “in una nuova cura per la demenza chiamata ‘terapia della reminiscenza’ gli specialisti usano foto, oggetti o brani musicali per stimolare conversazioni e riflessioni sui ricordi più profondi dei pazienti”.
Alcuni psicologi hanno fatto studi sull’effetto della nostalgia, tra questi Andrew Abeyta della Rutgers University del New Jersy secondo il quale la nostalgia rende le persone più ottimiste. Il ragionamento, per farla breve, si basa sulla sindrome di Pollyanna, cioè la tendenza a rievocare più facilmente i ricordi positivi rispetto a quelli negativi. E tutto è amplificato da un altro fenomeno riscontrato dai ricercatori: quello secondo il quale quando raccontiamo storie che hanno a che fare con la nostalgia tendiamo a usare un linguaggio più ottimistico del solito.
Insomma, al netto degli esperimenti scientifici, la nostra esperienza non è soltanto passato, non è soltanto ciò che ci è accaduto, ma è la materia prima sulla quale modellare il futuro: come argilla per plasmare forme inedite.
P.S.
Questo argomento mi servirà per introdurre domani la mia conferenza a Piazzetta Bagnasco a Palermo dedicata agli “appunti per il futuro”. Ricordiamocelo sempre: per guardare con lucidità al futuro bisogna tenersi caro il passato.