Domani sera tv, computer e…

Avviso ai naviganti. Domani pomeriggio, a urne chiuse, questo blog aprirà una finestra sul voto con spunti, riflessioni e, ovviamente, cazzeggiamenti. Il mio consiglio è questo: armatevi di tv (o radio) e computer. Commenteremo insieme risultati, trasmissioni televisive e retroscena fino a tarda notte. Poi, a conclusione, ci saranno le opinioni di alcuni tra i blogger più originali che conosco.
Insomma, non prendete impegni e soprattutto fate scorta di caffè e pazienza. Sono certo che ci faremo quattro risate, comunque vada.

Al voto, al voto!

Siamo al voto. Questa, dopo qualche decennio, è la prima tornata elettorale che seguo con distacco professionale, ma non senza apprensione per il destino del nostro Paese. Mi permetto quindi di rendere pubblico il mio promemoria personale.

  • Niente voto ai pregiudicati.
  • Ai miracoli si assiste, senza annunci.
  • Si vota una persona, non un padrone.
  • Stare lontani da chi promette l’uso di armi (da fuoco, nello specifico).
  • La fede non riguarda cariche elettive.
  • Gli amici sono importanti nella vita. Gli amici degli amici, no.
  • Un “voto in cambio di…” per maleficio si trasforma in un voto di scambio.
  • Le tasse sono una delle famose certezze della vita.
  • La nonviolenza ha reso eterni i suoi profeti.
  • La tolleranza è un valore anche quando non è accompagnata dalla parola “zero”.

Professione reporter (in ufficio)

della Barbiera della Sera

Ma addetto stampa si nasce o si diventa? E se si diventa… perché? Parliamone. Poco, ma parliamone di questo giornalista ibrido, di questo ministro senza portafoglio dell’informazione settoriale. Di questa figura a metà, bistrattata anche dai collaboratori delle più sperdute province, ma invidiata da tutti i componenti del suo ufficio perché al mattino “si legge i giornali”.
Restringiamo il campo. Parliamo della giornalista che di solito fa parte di un ufficio stampa composto da una sola persona: lei. Lei che può appartenere a due specie: con figli e senza figli.
Se la prole è composta da più unità e non può permettersi una governante, Lei si alzerà ogni mattina alle sei e farà una cosa per sé: si laverà. Esagerando si farà anche lo shampoo. Ma non tutti i giorni. Sarà il rumore del phon a svegliare il primo figlio. Quello più piccolo. E con i capelli umidi e gli occhi gonfi di sonno, l’addetta stampa–mamma, sosia della genitrice di E.T., preparerà il latte. Mentre il marito dorme, angelico, l’altro figlio, il più grande, si sveglierà. Lei, per non fargli venire i complessi di inferiorità, dovrà abbracciarlo e farlo sentire importante. Con i capelli umidi e il più piccolo in braccio preparerà la colazione. Mentre il marito dorme. Alle otto meno un quarto uscirà da casa. Con i capelli tesi e umidi. Lascerà il grande a scuola, il più piccolo dalla nonna. E poi, nei dieci minuti che le restano prima di andare al lavoro farà la seconda e ultima cosa per sé, in macchina: si truccherà. Perché Lei è la donna immagine del suo ufficio e non può presentarsi con dei crateri color amaranto sotto gli occhi.
Sorride. Entra in ufficio e sorride. Sorride quando alcuni colleghi le dicono: “Dottoressa oggi non ci siamo sui giornali, ahhhh!”. E l’addetta stampa-mamma con due figli e un marito che dorme beato, che fa? Sorride.
Se quel giorno è masochista, canticchia. Scava nel profondo del suo essere un ricordo, anche lontano, di una bella giornata passata chissà quando e chissà dove. E sorride. Poi legge i giornali: almeno sei quotidiani: locali e nazionali. Perché dev’essere sempre pronta. Per il suo datore di lavoro, che – come disse qualcuno in un film – pur di essere ogni giorno sui giornali, si farebbe chiamare oroscopo, deve sapere tutto. Sorridendo fa una delle cose che inorgoglisce il genere umano (addette stampa e non): le fotocopie. Che fin quando si tratta di fotocopiare un articolo che entra in un foglio A4 va bene. Ma fotocopiare, e riuscirci, un colonnino di destra de “la Repubblica” è un miracolo.
Subito dopo, ecco che arriva il datore di lavoro che le chiede un comunicato stampa su una notizia fondamentale. E lei lo sa che si tratta di comunicato che ha bisogno di una telefonata in redazione. A volte una chiamata giusta, alla persona giusta, che è in un momento giusto, è una ricompensa che rasenta la felicità. Perché Lei lo sa che c’è sempre un collega in ufficio, giornalista “nell’anima” che ha un amico, o un cugino, o un cugino dell’amico che può farlo pubblicare, quel comunicato. Mentre uno si chiede perché continua a fare l’addetto stampa ci sono almeno 50 persone che vorrebbero farlo. Così si telefona al giornale e si cerca il capo. Ma il capo non c’è. E se non c’è il capo, c’è magari un vice capo che quel giorno è particolarmente stanco. Dall’altra parte del telefono c’è sempre un giornalista che sta pensando di trasferirsi in Giamaica. Non ti ascolta e non ti sbatte il telefono in faccia per educazione e cortesia. Dapprima è un dubbio, poi diventa un’angoscia, infine una nevrosi: lo pubblicheranno il comunicato? Perché un addetto stampa lo sa: nonostante le mille assicurazioni, la telefonata, l’agenzia, la pubblicazione è certa solo quando la vedi.
E per quanto intero il comunicato uscirà, per quanto Lei sappia che è stato uno sforzo immane farlo pubblicare, ci sarà chi le farà notare che: a) Poteva andare d’apertura; b) E’ uscito su poche righe; c) Hanno cambiato il titolo; d) Hanno sbagliato un nome.
Le addette stampa senza figli poi si sposano e diventano come le prime (se fanno figli). Uguali.

La perizia di Berlusconi

Berlusconi e i suoi sodali di quel partito azienda che ha lanciato un’Opa sull’Italia tornano su un vecchio tema: quello delle perizie psichiatriche per i magistrati. Vecchio tema, sì. Talmente vecchio che per trovarne le radici bisogna andare indietro fino agli anni Settanta, quando l’esigenza di una sorta di esame psicologico venne inclusa nel cosiddetto “Piano di rinascita democratica” del “gran maestro” della P2, Licio Gelli. Un precedente illustre, anzi venerabile.
Il ragionamento dell’ex premier è il seguente: chi fa un mestiere in cui è chiamato ad amministrare gli altrui destini deve avere una sanità mentale certificata a più riprese. In pratica si auspica il rilascio (e il conseguente rinnovo, previa visita medica) di un apposito patentino, di un brevetto, di un tagliando di garanzia : giudice professionista, no tendenze omicide, no istinti autolesionisti, astemio, congiunto con persona di altro sesso davanti a ministro della chiesa cattolica, grande sostenitore del Pdl, ottimi precedenti penali, tifoso del Milan.
Al contempo, il senatore uscente Dell’Utri si è lanciato in un assolo in cui ha auspicato il perfezionamento dell’acquisto di un nuovo governo che riscriva la storia con la esse maiuscola, che ridimensioni il ruolo dell’antimafia (a minuscola), che abolisca i collaboratori di giustizia (minuscolo, minuscolissimo) e che renda piena giustizia “all’eroe” Vittorio Mangano (doppia maiuscola perché è nome proprio di persona).
Tutto chiaro, i conti tornano… a parte un dettaglio. Berlusconi e i suoi ostentano un florilegio di buoni propositi, ma non danno il bell’esempio: perché non sottoporsi per primi alla perizia psichiatrica di Stato?

Trilogia del sesso perduto/2

Ovvero “Fanculo i vent’anni”

In comune non avevamo nulla, a parte i vent’anni. Lui muscoloso e atletico, io lenta e pigra. Lui affascinato dai superuomini di destra, io dalle letture gramsciane. Lui sempre pronto alle lunghe dormite, io alle nottate sui libri, in vista di appassionanti sfide intellettuali che non arrivarono mai.
Eppure io e Luca all’Università eravamo inseparabili, infallibili, bravi direi. Laddove si affacciava un eccesso dell’uno era l’altro a temperarlo. I colleghi di corso ci chiamavano la “fantastica coppia”.
Io e Luca eravamo molto attratti l’una dall’altra, ma questo era un tasto tabù.
Colpa mia.
Ero io quella fidanzatissima, ed ero io ad avere costruito un muro tra noi due così alto e spesso, che sarebbe stato impossibile demolirlo per entrambi.
Ci fu un pomeriggio nella sua cameretta da studente fuorisede. In due anni fu quella l’unica volta che ci misi piede. Facevo sempre in modo che i nostri tete a tete di studio avvenissero in luoghi rigorosamente neutri, e i suoi maldestri tentativi di organizzare un appuntamento tra quattro mura fallivano sempre. Mi costava, naturalmente. I suoi occhi verdi e il suo sorriso solare erano un attentato quotidiano.
I miei vent’anni erano votati alla disciplina. Non lo sapevo a quei tempi, ma ero il perfetto prototipo di Verbena fascista, nonostante mi piccassi di stare dalla parte opposta: fedeltà al puro ideale civico, fedeltà al fidanzato decennale, fedeltà al dovere e allo studio. Sesso sì e volentieri, ma disciplinato dall’ascesi della coppia perfetta.
Cosa successe in quella cameretta stretta stretta e zeppa di adesivi del Fuan?
Successe che lui ci provò. E che io mi scansai recitando fastidio.
Lui tentò di farfugliare qualcosa di sincero, ed io lo interruppi con una risatina isterica.
Avevo il cuore in gola e una pericolosa voglia di lasciarmi andare. Ne uscii indenne. L’onore era salvo, ancora una volta.
Un giorno, però, ci portò in aula una ragazza. Ingoiai amaro e non feci una piega. Luca divenne un altro Luca. Niente risate infinite, niente giochi, niente cineclub. Solo studio, libretto, voti, medie…
Ci laureammo. Ci furono le feste e ci furono gli arrivederci, che in verità erano degli addii.
Rividi Luca al funerale militare di una persona a me cara. Faceva parte del picchetto d’onore. Mi vide piangere ma non mi salutò. Gli telefonai. Fu cordiale, ma nulla di più. Tentai un recupero tenero ma mi gelò con una frase di circostanza che voleva dire molte cose.
Ci rimasi male. E persino in quel caso pensai che l’onore e la fedeltà, avevano avuto la meglio.
Passarono gli anni. Finii per mollare il mio ingessatissimo fidanzato ad un passo dalle nozze.
Ogni tanto, quando ripasso da quell’Università, penso alla Verbena che ero.
E a quei meravigliosi occhi verdi che quel pomeriggio ho allontanato dai miei.
Fanculo l’onore. Fanculo i vent’anni.

La fiamma spenta

La fiamma che si spegne è una figura che ci dice molto, per metafora e retorica: si spegne quando si estingue un amore, si spegne quando la giovinezza se ne va, si spegne quando la fede non è più alimentata.
C’è una fiamma che è simbolo sempiterno (perdonate la parolona) di fratellanza, senza i vapori di un credo religioso, semplice e netta come una corsa sulla spiaggia, vince chi arriva primo, poi festa tutti insieme e da domani nemici come prima.
Quella fiaccola è stata spenta ieri a Parigi, ha dovuto viaggiare in pullman anziché sulle gambe che da tempo immemore la portavano in giro per il mondo, è stata scortata da poliziotti paonazzi, si è trovata ad essere inseguita da mani che la volevano strappare come si strappano i simboli quando il loro antico significato viene tradito. Mi è sembrato di leggere, ascoltare una frase: non cresce frumento nei campi irrigati a odio.
La tardiva, e insulsa, presa di posizione del presidente del Comitato olimpico internazionale e, nel nostro minuscolo, quella del Coni non salveranno la Cina e i suoi vuoti Giochi olimpici dal giudizio della Storia. Un Paese che gestisce la sua politica interna con ferocia e i suoi affari esteri (economia in primis) con blindata presunzione non è degno di ospitare la più solenne manifestazione sportiva che l’uomo si è inventato da quando ha scoperto che le sue braccia, le sue gambe, il suo cervello potevano essergli utili per combattere in modo incruento e moralmente fecondo. Il silenzio dei Paesi occidentali (Francia esclusa) è un puntello all’edificio della vergogna. Le parate in mondovisione sono solo una frettolosa mano di vernice su un muro crepato. Bastano le unghie di un disperato, vittima del suo stesso dissenso o semplicemente della sua voglia di parlare, per far venire giù una costruzione che, in un mondo libero, non potrebbe nemmeno essere stata immaginata.

L’elaborazione dell’immagine è di Salvatore Mangione

"Cumenda" e cadaveri: la tv dei morti viventi

In America è uscito un film che si intitola Diary of the dead, diretto da un regista che amo moltissimo, George Romero. Ho visto il film in anteprima attraverso uno dei mille rivoli del desiderio che internet ti offre, perché tarda ad arrivare in Italia, e forse mai ci arriverà.
Il “diario dei morti viventi” è un’opera strana, troppo intelligente per essere un horror per ragazzini, troppo violenta per non esserlo, troppo cupa per piacere a chi al cinema “ama rilassarsi”, con troppa poca storia per coinvolgere il grande pubblico, con troppi spunti di riflessione per liquidarla in modo spensierato. E sono limiti voluti. Masochisticamente e coraggiosamente predeterminati. Romero è uno dei pochi registi del cinema “indipendente” americano degli anni ‘60-‘70 a essere rimasto fedele alla propria indole: mettere su pellicola una visione spietata della società, al passo con i tempi, sacrificando la spettacolarità e persino le regole auree hollywoodiane dell’intrattenimento di successo. È il peggiore nemico di se stesso sul piano commerciale e il migliore amico di chi, come me, da un film si aspetta una zampata che mi risvegli e mi ricordi che anno è. Dice: che c’entra con il “cumenda” del Grande Fratello? C’entra. E c’entra anche con Meredith. E con Cogne. E con Erba.
Romero, l’inventore dei morti viventi cannibali, mostra nel suo nuovo film l’epidemia degli zombi – larve umane affamate, prive di coscienza, dal morso che contamina – solo attraverso la telecamera traballante di un giovane aspirante regista. E attraverso i tg, youtube, videocellulari, montaggi con il final cut pro. Schermi, schermi, schermi. Il reportage scivola da una telecamera all’altra, la telecamera da un personaggio all’altro, in una stratificazione di stimoli che liofilizza la realtà in delirio, ed è questo il vero contagio. Vedere, conservare l’orrore, nutrirsene, mostrarlo, inocularlo al prossimo, ma non sentirlo. A un certo punto la voce narrante del film, la giovane Debra, dice pressappoco: “Compulsione. Siamo spinti a vedere, a trasmettere. Che cosa succede nella nostra testa quando ci fermiamo per osservare qualcosa di orribile, un incidente in autostrada? Qualcosa ci costringe a frenare. Ma non lo facciamo per aiutare. Lo facciamo per guardare”.
Meredith. Erba. Cogne. Il “cumenda” del Grande Fratello: la sua faccia.
Il diario dei morti viventi.

Il Grande Fardello

Ho visto di rimbalzo in tv alcune schegge del “Grande Fratello”. “Striscia la notizia” e “Le iene” mi hanno rivelato l’esistenza di un tale – di cui, per senso di autoconservazione, non ricordo il nome – soprannominato “il cumenda” (nella foto). Questo signore, che onora con inconsapevole rispetto la teoria lombrosiana, è passato alla minima storia della minima televisione italica per essersi fatto fare una sega in diretta tv e per aver giurato amore, in simultanea, alla sua fidanzata (che ovviamente non era l’artefice della manovra sessuale in questione).
Ho attraversato con tumultuosa serenità tutte le fasi dell’adolescenza, mi ritengo sessualmente umano, ho letto e apprezzato molta letteratura di consumo, ho ramazzato molta spazzatura televisiva, sono stato rockettaro, vegetariano, jazzista, postmoderno, psichedelico, tradizionalista e contestatore in ordine sparso, ma mi ostino a non (voler) capire perché mai si debbano portare in televisione persone grette, presuntuose e umanamente ignobili per farne personaggi.
Fin dai tempi di Plauto, il cattivo aveva un ruolo importante nella messinscena: era il contraltare, il mezzo di contrasto, la chiave di volta, e talvolta era talmente cattivo da attirare qualche simpatia tra il pubblico. Nel “Grande Fratello” c’è un trionfo di stupidità che danneggia persino gli istinti più bassi. Ci si accoppia, si litiga, ci si insulta e ci si amalgama come nemmeno nelle esistenze più luciferine accade.
Fossi il diavolo in persona querelerei.

Forrest Gump de’ noantri

Iko ha una visione singolare del mondo. Scrive con una prospettiva diversa rispetto alla nostra. Provate a mettervi nei suoi panni e cercate – se volete – di capire…


di Iko

1h e 5’ a Villa Ada, ma andando piano, avremo fatto poco più di 10 chilometri, perché abbiamo tenuto il passo di Mario.
Io l’avevo visto al primo giro del lago, lei non se n’era accorta e quando l’abbiamo incrociato l’ha salutato. Si è accodato. Con noi era già venuto un’altra volta, lo incontriamo quasi sempre, al solito posto, vicino al cancello, dove si fa stretching, in perfetta tenuta da runner: la mia compagna all’inizio credeva fosse un personal trainer, io no. E’ semplicemente uno fuori di testa.
Nella vita corre. Non fa nient’altro. Avrà 45 anni anni più o meno, sostiene che la sua fortuna sia la pensione di invalidità per il glaucoma e per i problemi psichiatrici. Non fa male a nessuno, però, al parco lo conoscono tutti e corre con tutti. E’ regolarmente iscritto ad una società sportiva, partecipa all’organizzazione delle manifestazioni e fa tutte le corse, ovviamente. Anche per questo è sempre vestito perfetto, indossa quello che gli regalano alle gare. Oggi aveva la maglietta di quella di Budapest. Ha raccontato del Danubio, millanta record del suo passato e narra storie romane incredibili, che spaziano da Lotta Continua agli ultrà, dalla mappa dei discount per la spesa alle battaglie con la Asl per l’indennità d’accompagno della madre, invalida pure lei. Descrive episodi di ogni genere, stamattina ha ricordato di quando si è perso durante una mezza maratona notturna. Dice di conoscere attori e campioni, di far parte della Protezione Civile, di dare del tu a molti amministratori. E parla, sempre. Per questo ci costringe a rallentare. In realtà a me non si rivolge mai, anzi, si tiene sull’altro lato e mi controlla con la coda dell’occhio, credo mi tema.
Lei invece si leva un auricolare dell’ipod e ascolta le storie di Mario. Che siano vere o false non importa. Preferisce correre sola con me, non c’è dubbio, ma si è giustificata spiegando che una volta ogni tanto si può fare, che è uno sguardo allucinato sul mondo che ha un suo perché. Io preferirei fare i tuffi nel ruscello con gli altri cani.

L’Alitalia e il sindacato arrugginito

Alitalia è sull’orlo del fallimento. Le trattative tra l’unico gruppo disposto ad aprire (seppur di poco) la borsa per l’acquisto e i sindacati si sono frantumate. Ora si spera in un miracolo della politica per salvare un’azienda amministrata male che rischia di finire come ogni azienda amministrata male meriterebbe. Appare surreale la posizione della Uil che è orgogliosa di non aver partecipato al summit: il suo leader Angeletti rivendica il ruolo di chi aveva visto giusto. Visto cosa? Lo scenario dello sfacelo? La banda Bassotti con la cassaforte? O l’unica offerta che tempo e tasche imponevano di considerare?
Ci sono in questo sindacalese del “noi l’avevamo previsto” (previsto cosa?) tutta la ruggine di un sindacato stantio, l’incrostazione che blocca gli ingranaggi della logica, l’arroccarsi su posizioni costruite a tavolino (un tavolino molto antico e traballante) che rischiano di mandare a picco l’azienda Italia. Perché – diciamocelo chiaramente – non è solo Berlusconi il nemico di un’economia moderna, coerente e patriotticamente equa.