Ho visto di rimbalzo in tv alcune schegge del “Grande Fratello”. “Striscia la notizia” e “Le iene” mi hanno rivelato l’esistenza di un tale – di cui, per senso di autoconservazione, non ricordo il nome – soprannominato “il cumenda” (nella foto). Questo signore, che onora con inconsapevole rispetto la teoria lombrosiana, è passato alla minima storia della minima televisione italica per essersi fatto fare una sega in diretta tv e per aver giurato amore, in simultanea, alla sua fidanzata (che ovviamente non era l’artefice della manovra sessuale in questione).
Ho attraversato con tumultuosa serenità tutte le fasi dell’adolescenza, mi ritengo sessualmente umano, ho letto e apprezzato molta letteratura di consumo, ho ramazzato molta spazzatura televisiva, sono stato rockettaro, vegetariano, jazzista, postmoderno, psichedelico, tradizionalista e contestatore in ordine sparso, ma mi ostino a non (voler) capire perché mai si debbano portare in televisione persone grette, presuntuose e umanamente ignobili per farne personaggi.
Fin dai tempi di Plauto, il cattivo aveva un ruolo importante nella messinscena: era il contraltare, il mezzo di contrasto, la chiave di volta, e talvolta era talmente cattivo da attirare qualche simpatia tra il pubblico. Nel “Grande Fratello” c’è un trionfo di stupidità che danneggia persino gli istinti più bassi. Ci si accoppia, si litiga, ci si insulta e ci si amalgama come nemmeno nelle esistenze più luciferine accade.
Fossi il diavolo in persona querelerei.