Professione reporter (in ufficio)

della Barbiera della Sera

Ma addetto stampa si nasce o si diventa? E se si diventa… perché? Parliamone. Poco, ma parliamone di questo giornalista ibrido, di questo ministro senza portafoglio dell’informazione settoriale. Di questa figura a metà, bistrattata anche dai collaboratori delle più sperdute province, ma invidiata da tutti i componenti del suo ufficio perché al mattino “si legge i giornali”.
Restringiamo il campo. Parliamo della giornalista che di solito fa parte di un ufficio stampa composto da una sola persona: lei. Lei che può appartenere a due specie: con figli e senza figli.
Se la prole è composta da più unità e non può permettersi una governante, Lei si alzerà ogni mattina alle sei e farà una cosa per sé: si laverà. Esagerando si farà anche lo shampoo. Ma non tutti i giorni. Sarà il rumore del phon a svegliare il primo figlio. Quello più piccolo. E con i capelli umidi e gli occhi gonfi di sonno, l’addetta stampa–mamma, sosia della genitrice di E.T., preparerà il latte. Mentre il marito dorme, angelico, l’altro figlio, il più grande, si sveglierà. Lei, per non fargli venire i complessi di inferiorità, dovrà abbracciarlo e farlo sentire importante. Con i capelli umidi e il più piccolo in braccio preparerà la colazione. Mentre il marito dorme. Alle otto meno un quarto uscirà da casa. Con i capelli tesi e umidi. Lascerà il grande a scuola, il più piccolo dalla nonna. E poi, nei dieci minuti che le restano prima di andare al lavoro farà la seconda e ultima cosa per sé, in macchina: si truccherà. Perché Lei è la donna immagine del suo ufficio e non può presentarsi con dei crateri color amaranto sotto gli occhi.
Sorride. Entra in ufficio e sorride. Sorride quando alcuni colleghi le dicono: “Dottoressa oggi non ci siamo sui giornali, ahhhh!”. E l’addetta stampa-mamma con due figli e un marito che dorme beato, che fa? Sorride.
Se quel giorno è masochista, canticchia. Scava nel profondo del suo essere un ricordo, anche lontano, di una bella giornata passata chissà quando e chissà dove. E sorride. Poi legge i giornali: almeno sei quotidiani: locali e nazionali. Perché dev’essere sempre pronta. Per il suo datore di lavoro, che – come disse qualcuno in un film – pur di essere ogni giorno sui giornali, si farebbe chiamare oroscopo, deve sapere tutto. Sorridendo fa una delle cose che inorgoglisce il genere umano (addette stampa e non): le fotocopie. Che fin quando si tratta di fotocopiare un articolo che entra in un foglio A4 va bene. Ma fotocopiare, e riuscirci, un colonnino di destra de “la Repubblica” è un miracolo.
Subito dopo, ecco che arriva il datore di lavoro che le chiede un comunicato stampa su una notizia fondamentale. E lei lo sa che si tratta di comunicato che ha bisogno di una telefonata in redazione. A volte una chiamata giusta, alla persona giusta, che è in un momento giusto, è una ricompensa che rasenta la felicità. Perché Lei lo sa che c’è sempre un collega in ufficio, giornalista “nell’anima” che ha un amico, o un cugino, o un cugino dell’amico che può farlo pubblicare, quel comunicato. Mentre uno si chiede perché continua a fare l’addetto stampa ci sono almeno 50 persone che vorrebbero farlo. Così si telefona al giornale e si cerca il capo. Ma il capo non c’è. E se non c’è il capo, c’è magari un vice capo che quel giorno è particolarmente stanco. Dall’altra parte del telefono c’è sempre un giornalista che sta pensando di trasferirsi in Giamaica. Non ti ascolta e non ti sbatte il telefono in faccia per educazione e cortesia. Dapprima è un dubbio, poi diventa un’angoscia, infine una nevrosi: lo pubblicheranno il comunicato? Perché un addetto stampa lo sa: nonostante le mille assicurazioni, la telefonata, l’agenzia, la pubblicazione è certa solo quando la vedi.
E per quanto intero il comunicato uscirà, per quanto Lei sappia che è stato uno sforzo immane farlo pubblicare, ci sarà chi le farà notare che: a) Poteva andare d’apertura; b) E’ uscito su poche righe; c) Hanno cambiato il titolo; d) Hanno sbagliato un nome.
Le addette stampa senza figli poi si sposano e diventano come le prime (se fanno figli). Uguali.

Pubblicato da

Gery Palazzotto

Palermo. Classe 1963. Sei-sette vite vissute sempre sbagliando da solo. Sportivo nonostante tutto.

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