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Chi sono questi due signori? E dove sono?

Il sindaco di tutti

A parte il “chi non salta comunista è!” canticchiato gioiosamente nel quartier generale di Alemanno, mi ha colpito ieri la seguente dichiarazione del neo sindaco di Roma: “Sarò il sindaco di tutti”.
Ho un’età e per molto tempo mi sono occupato, per mestiere, di elezioni. Il sindaco di tutti… il presidente di tutti… un classico nel riciclaggio dei luoghi comuni. “Sarò il sindaco di tutti” è una frase che è cartina tornasole della coscienza civica offuscata e, al tempo stesso, indicatore del livello dell’olio della fantasia.
Esiste un sindaco di alcuni? C’è una carica elettiva e istituzionale che preveda una franchigia di servizio? L’intorpidimento mentale avvolge – ed è questo il dramma – non solo chi stupidamente pronuncia ancora questa frase, ma chi la diffonde, chi la amplifica, chi ne fa resoconto, titolo. Una frase che non significa niente al pari di: “Sarò un sindaco bipede”; oppure “Sarò un sindaco che respira” (anche se questa potrebbe nascondere una notizia); o, udite udite, “Sarò un sindaco onesto” (altra notizia, azz!). Ok, basta esempi.
Comunque, sfogliate i giornali e ditemi se trovate una sola voce critica contro una simile insensatezza. Dovremmo cominciare a pensare che buon governo e buona creanza non hanno in comune solo un aggettivo.

Calderoli

Le cronache politiche riferiscono di una cordiale resa dei conti tra Berlusconi e Bossi per la spartizione dei posti a sedere, tra poltrone e seggiole, in vista del varo del nuovo governo.
C’è un nome che torna, rimbalza e lascia un alone di unto sulle pagine dei giornali: Calderoli.
Per questo illuminato esponente politico padano la Lega avrebbe voluto il posto di vicepremier, ma l’accordo tra Be&Bo ha escluso questa possibilità.
Fermiamoci qui: il destino politico di un Paese prevede che si debba discutere del ruolo di Calderoli e che si debbano mobilitare fior di commentatori per sviscerare ragioni, retroscena, alternative.
Per capire di chi stiamo parlando e a che livello ci siamo arenati, bastano alcune dichiarazioni storiche di questo signore. Eccole.
Sui gay. “La civiltà gay ha trasformato la Padania in un ricettacolo di culattoni… Qua rischiamo di diventare un popolo di ricchioni”.
Dopo la vittoria dell’Italia ai Mondiali del 2006. “È una vittoria dell’identità italiana, di una squadra (…) che ha battuto una squadra, la Francia, che, per ottenere dei risultati, ha sacrificato la sua identità schierando negri, musulmani e comunisti”.
Il caso Napoli. “La fogna va bonificata e visto che Napoli oggi è diventata una fogna bisogna eliminare tutti i topi, con qualsiasi strumento, e non solo fingere di farlo perché magari anche i topi votano”.
Extracomunitari /1. “Che tornino nel deserto a parlare con i cammelli o nella giungla con le scimmie, ma a casa nostra si fa come si dice a casa nostra!”.
Extracomunitari/2. “Dare il voto agli extracomunitari non mi sembra il caso, un paese civile non può fare votare dei bingo-bongo che fino a qualche anno fa stavano ancora sugli alberi, dai”.
Extracomunitari/3. “Con una salva di dietro e una davanti, le navi dei clandestini non partirebbero più!”.
Unione europea. “Andremo a Bruxelles noi padani, porteremo un po’ di saggezza della croce a quel popolo di pedofili”.

Elogio della pralina

Lo so che parlare di cioccolato va di moda.
Sarà stata colpa del film con la Binoche e Jonnhy Depp, e di quei fiumi di crema scura che scivolavano dappertutto.
Solo che io il cioccolato lo adoro davvero e, quel che è peggio, lo divoro.
Di più: lo sogno, lo studio, lo cucino. Anzi, lo modello.
Perché, diciamolo chiaramente, esiste forse un piacere dei sensi più forte che manipolare una materia tiepida e burrosa, mescolarla ad aromi, congiungerla ad altre identità nobili (le nocciole, i chicchi di caffè, la frutta secca, la frutta fresca) sentirne gli effluvi intensi ma mai troppo dolciastri, e poi affidarla alla saggezza dello stampo o all’improvvisazione delle dita?
Sì, esiste, so a cosa state pensando. Ma il distacco tra i due brividi è breve, molto breve. Almeno per me.
Sappiate pure che v’è una corrispondenza sottile tra la nostra vita e quella di una pralina.
Non ridete. Sto per rivelarvi un segreto.
Prendete il tartufo. E’ un cioccolatino facile ma di classe. Ha un cuore morbido che richiama una nota di rhum (fragile, mai impertinente, se fosse musica un si bemolle) su una base di cioccolato nero, il più nero che si può. I francesi la chiamano ganache. La copertura invece è decisa: fondente, croccante. Importantissimo che crocchi, altrimenti significa che il cioccolato non è stato ben temperato, ossia non lavorato alla giusta temperatura. E questo ucciderebbe il tartufo. Sarebbe come commettere un peccato grave a cui, ahimè, siamo oramai abituati: la pigrizia, l’accidiosa abitudine alle vie brevi, agli odiosi quattro salti in padella, alle discussioni via sms, al sesso veloce e sfuggente.
E’ la dedizione, il segreto: più la copertura si lavora, con la lama, sulla base di marmo, ai gradi giusti, più il guscio risulterà vigoroso, degno custode di un ripieno saporito. Solidità e tenerezza, disciplina e riposo.
Poi c’è il Boero. Pensate sia impossibile farlo in casa? Sorrido, superba. Perché si può. Basta scegliere bene liquore e amarena, con la stessa saggezza di una paziente massaia. I Boero riempiono la bocca e ti lasciano appena la voglia di un altro Boero. Ma poi di null’altro, soprattutto, di nessun’ altra pralina. E’ il senso di soddisfazione e di sazietà che la vita ancora ci sa offrire alla fine di una giornata in cui si è goduto, sofferto, gridato, sospirato e consegnato se stessi al tempo sbruffone che passa.
Infine, il classico, intramontabile quadrato. Un pezzo di tavoletta, senza tanti fronzoli.
Profumo, lucentezza, morso, crac, croc. E poi scioglievolezza, e poi saliva nera, grumo di piacere, deglutizione, sorriso. Ritorno alla materia tiepida e burrosa dell’inizio.
Perché polvere eri e polvere tornerai.
Cameriere, cioccolato per tutti. Offre Verbena.

soundtrack

Palermo in tasca

Ieri mi sono imbattuto in un giornaletto che si propone come “mensile gratuito di informazione annunci cultura svago e società”. E’ un prodotto editoriale della mia città: si chiama “Palermo in… tasca”. L’ho sfogliato e ho scoperto alcune cose.
Primo. Il direttore editoriale, tale Giuseppe Amato, è anche responsabile del progetto grafico, “direttore fotografia” (come al cinema), nonché autore del novanta per cento degli articoli.
Secondo. Il suddetto (giornalista?) ha una particolare simpatia per le virgole, che infatti vengono utilizzate in abbondanza per ogni occasione: virgole di sospensione, virgole di riempitivo, virgole d’umore.
Terzo. I punti sono in ribasso.
Quarto. La differenza che passa tra un resoconto giornalistico e un redazionale pubblicitario è inesistente: gli strafalcioni sono democraticamente ripartiti.
Quinto. La carta inutilmente imbrattata non è solo quella dei manifesti elettorali. Questo mensile – afferma il direttore-grafico-cineasta – è stampato in ventimila copie.
Sesto. L’ordine dei giornalisti non ha più motivo di esistere.
Settimo. Le nozioni elementari di grammatica e ortografia non servono per imbastire un progetto editoriale.
Non voglio accanirmi contro persone che non conosco, però ritengo che la parola stampata su un simulacro di giornale/periodico debba sempre essere difesa. L’ignoranza, specie se in presenza di un direttore-grafico-cineasta, va combattuta con tre sole parole: tornare a scuola.
Prima di Palermo in… tasca serve un’ autentica licenza media in… tasca.

Catene e palle

Il governo dà 300 milioni ad Alitalia, società per azioni quotata in borsa. Ho già espresso il mio parere critico nei confronti del salvagente di Stato lanciato a un’azienda mentre le altre, che pure hanno pari dignità, possono fallire serenamente. Nel mercato contano le spalle e, perdonatemi, le palle. Se mancano le une e le altre non si possono cambiare le regole del gioco. Non si può far finta di niente: partita patta, si ricomincia.
Ho ancora nelle orecchie le parole di un matematico del Crn che qualche mese fa mi spiegò: “C’è una regola nella finanza. Quando un investimento va in crisi, gli stessi investitori possono decidere di investire ancora capitale. Insomma, per diminuire le perdite questi signori investono per autosostenere il sistema, pompano dentro capitale”.
Lo scienziato in questione parlava delle catene di Sant’Antonio.
Chiaro, no?

Una ronda non fa primavera

Il ministro dell’Interno prossimo venturo, Roberto Maroni, ha le idee chiare. Le ronde padane sono un modello da esportare: ronde emiliane, laziali, liguri, siciliane. Ci saranno gruppi improvvisati di “poliziotti” paesani, condominiali, interpoderali. Ognuno con la sua bella spranghetta e la sua giustizia pret-à-porter. Il nuovo modello di sicurezza della microciviltà globalizzata italiana è la distribuzione equanime della capacità offensiva. Per difendersi da ciò che sembra troppo grande ci si affida al troppo piccolo.
I cittadini, insomma, scendono in campo: come il loro premier.
Una ronda non fa primavera, due, tre… fanno inverno, gelo, buio, paura.
Non si può dire che non c’era da aspettarselo.

Un Raskolnikov senza palle

“Ma come ebbe mosso quello straccio, improvvisamente da sotto il pellicciotto scivolò fuori un orologio d’oro. Rovesciò subito tutto quanto. Effettivamente agli stracci erano mescolati degli oggetti d’oro (…) braccialetti, catenine, orecchini, spille e simili. Alcuni erano contenuti in astucci, altri semplicemente avvolti in carta da giornale (…) in fogli doppi, legati con cordoncini. Senza perdere tempo se ne riempì le tasche dei pantaloni e del soprabito (…) a un tratto sentì che nella stanza dell’anziana qualcuno stava camminando (…) scattò in piedi, afferrò la scure e corse fuori dalla camera da letto”.
Stacco.
“Nascondeva circa 100mila euro in un vano della stufa l’anziana strangolata in casa in via della Moschea a Roma e trovata morta sabato pomeriggio. I carabinieri durante un sopralluogo hanno trovato nell’abitazione popolare di Emilia Stoppioni denaro contante (circa 10mila euro), buoni postali e libretti di risparmio. È quindi probabile che chi l’ha uccisa sapesse dell’esistenza di questi soldi”.
Il primo brano l’ho preso dal romanzo forse più noto di Fëdor Dostoevskij, Delitto e Castigo. Dell’anno 1866.
Il secondo da un articolo del Corriere della Sera online.
Di ieri.
Ho una madre anziana che vive da sola – senza stufa né contanti in casa, sia chiaro – e ogni volta che leggo una notizia così faccio un elenco mentale dei buoni motivi per conservare amore verso il prossimo, e scriverne. Non lesino sui punti interrogativi.
Notizie del genere mi ricordano che anche il più pessimista degli scrittori ha un animo generoso, così largo e ricco di doni che potrebbe pranzarci dentro tutta l’umanità. Dostoevskij aveva pietà dello studente assassino Raskolnikov. Gli attribuiva pensiero e tormento, ne metteva a nudo grovigli di contraddizioni, ne rivendicava la disperata ricerca di un perché.
Io ho un animo più asfittico.
Al vigliacco che ha ucciso la signora Emilia Stoppioni, ottantuno anni – l’ultima delle vittime facili di un’Italia che si preannuncia sempre più difficile – non attribuisco nulla, nemmeno il pregio dell’originalità. Ha ammazzato e frugato in un piccolo mondo senza difese ignorando che Raskolnikov era stato lì prima di lui, molto tempo prima. Quanto mi piacerebbe dirglielo. Me lo immagino il senza palle: Che? Raskolni-chi?
Quando si sostiene che in Italia si legge poco, e male, e se anche fosse il contrario non servirebbe a un cavolo di niente. Dopotutto.

In barca o a nuoto?

Sono, se così si può dire, un “appuntista”. Conservo, da sempre, ritagli, fogli dattiloscritti, mail. E’ una mania molto diffusa tra chi vive (e campa) di parole. Se qualche volta non accumulo carta o simulacri di carta scritta è cattivo segno: vuol dire che è un pessimo periodo.
Spesso ripesco vecchi appunti e ne traggo gioia persino quando mi raccontano storie dolorose (mie, di altri, o di nessuno cioè inventate). C’è, in questo bagno di memoria, tutto fuorché nostalgia: del resto come si potrebbe mai provare nostalgia per qualcosa che bello/buono non è?
C’è un elisir consolatorio, c’è un “nonostante tutto siamo ancora qua”, c’è un fatalismo che – a mio parere – divide gli esseri umani in due categorie: quelli che stanno sulla barca e quelli che nuotano.
I primi remano, alternando pause, e pensano all’approdo: per loro l’acqua passata è quella che si sono lasciati dietro, lungo la schiuma dell’imbarcazione.
Gli altri sono talmente dentro le loro braccia da non temere l’orizzonte: per loro l’acqua passata è la stessa che li sostiene, li tiene a galla ed è strumento inerte per la loro propulsione.
I primi saranno stanchi – certo – a un certo punto del tragitto, ma potranno riposarsi e magari fare scelte di comodo: una corrente favorevole, un pisolino per via del mare calmo. Guarderanno solo al futuro di un porto tranquillo. E magari a una trattoria nota, in cui festeggiare la fine della traversata.
Gli altri si troveranno con la fatica nei muscoli quando la terra è ancora lontana e camperanno del proprio entusiasmo perché non è il porto che sognano, ma la sopravvivenza nel senso più alto di “vivere sopra”. Nei momenti difficili rivedranno, bracciata dopo bracciata, momenti più difficili, magari asciutti, e godranno della capacità di essere lì, sopravvissuti a combattere per un’altra prova difficile.
Provate a fare questo gioco, guardandovi indietro: voi a che categoria appartenete?

Uccidere con grazia

La mia amica Mara, dalla Francia, mi sottopone con indignazione la seguente notizia: la Corte Suprema degli Stati Uniti ha stabilito che le iniezioni letali non violano la Costituzione. Il busillis – in un ambito così ignobile, come ignobile è la pena di morte – sta nella quota di sofferenza che la morte di Stato impone: deve essere quel tanto che basta per uccidere senza urla, dolore, casino insomma.
E’ curiosa questa cura istituzionale del dettaglio, questa attenzione tutta americana, diciamolo: la morte, seppur inflitta contronatura a uno che che non ha la minima voglia di accettarla, può essere giusta, confortevole, civile.
Ci sbracciamo per protestare contro un altro colosso di civiltà, la Cina, che si spinge a presentare il conto delle spese dell’esecuzione ai parenti dei condannati (del resto le pallottole costano, che ci vogliamo fare…). E dimentichiamo – a mio modesto parere – che la graduatoria dell’etica e della decenza riguarda persino quegli Stati che fanno dei diritti umani carta straccia. I cinesi se ne fottono altamente e brandiscono la loro autosufficienza come un credo blindato. Gli americani pretendono di esportare il loro modello di civiltà e brandiscono la loro faccia tosta come un credo bellico. Uccidono, insomma, ma con grazia.