La fiamma che si spegne è una figura che ci dice molto, per metafora e retorica: si spegne quando si estingue un amore, si spegne quando la giovinezza se ne va, si spegne quando la fede non è più alimentata.
C’è una fiamma che è simbolo sempiterno (perdonate la parolona) di fratellanza, senza i vapori di un credo religioso, semplice e netta come una corsa sulla spiaggia, vince chi arriva primo, poi festa tutti insieme e da domani nemici come prima.
Quella fiaccola è stata spenta ieri a Parigi, ha dovuto viaggiare in pullman anziché sulle gambe che da tempo immemore la portavano in giro per il mondo, è stata scortata da poliziotti paonazzi, si è trovata ad essere inseguita da mani che la volevano strappare come si strappano i simboli quando il loro antico significato viene tradito. Mi è sembrato di leggere, ascoltare una frase: non cresce frumento nei campi irrigati a odio.
La tardiva, e insulsa, presa di posizione del presidente del Comitato olimpico internazionale e, nel nostro minuscolo, quella del Coni non salveranno la Cina e i suoi vuoti Giochi olimpici dal giudizio della Storia. Un Paese che gestisce la sua politica interna con ferocia e i suoi affari esteri (economia in primis) con blindata presunzione non è degno di ospitare la più solenne manifestazione sportiva che l’uomo si è inventato da quando ha scoperto che le sue braccia, le sue gambe, il suo cervello potevano essergli utili per combattere in modo incruento e moralmente fecondo. Il silenzio dei Paesi occidentali (Francia esclusa) è un puntello all’edificio della vergogna. Le parate in mondovisione sono solo una frettolosa mano di vernice su un muro crepato. Bastano le unghie di un disperato, vittima del suo stesso dissenso o semplicemente della sua voglia di parlare, per far venire giù una costruzione che, in un mondo libero, non potrebbe nemmeno essere stata immaginata.
L’elaborazione dell’immagine è di Salvatore Mangione