L’Alitalia e il sindacato arrugginito

Alitalia è sull’orlo del fallimento. Le trattative tra l’unico gruppo disposto ad aprire (seppur di poco) la borsa per l’acquisto e i sindacati si sono frantumate. Ora si spera in un miracolo della politica per salvare un’azienda amministrata male che rischia di finire come ogni azienda amministrata male meriterebbe. Appare surreale la posizione della Uil che è orgogliosa di non aver partecipato al summit: il suo leader Angeletti rivendica il ruolo di chi aveva visto giusto. Visto cosa? Lo scenario dello sfacelo? La banda Bassotti con la cassaforte? O l’unica offerta che tempo e tasche imponevano di considerare?
Ci sono in questo sindacalese del “noi l’avevamo previsto” (previsto cosa?) tutta la ruggine di un sindacato stantio, l’incrostazione che blocca gli ingranaggi della logica, l’arroccarsi su posizioni costruite a tavolino (un tavolino molto antico e traballante) che rischiano di mandare a picco l’azienda Italia. Perché – diciamocelo chiaramente – non è solo Berlusconi il nemico di un’economia moderna, coerente e patriotticamente equa.

Va ora in onda

Una pattumiera dotata di antenna e ripetitori che si fa chiamare TeleNorba ha mandato in onda il filmato della polizia scientifica in cui si vede il cadavere della povera Meredith, la ragazza inglese uccisa qualche mese fa a Perugia. Il capo netturbino (con rispetto per i netturbini veri) si è giustificato aggrappandosi a qualcosa che non conosce: il diritto di cronaca. Il diritto di cronaca, quello vero, presuppone la necessità di informare su eventi di pubblico interesse senza censure nel nome della libera espressione, sotto l’egida dell’articolo 21 della Costituzione.
E’ inutile chiedere a questo signore cosa ci sia di pubblicamente importante nel mostrare le nudità di una ragazza uccisa, la sua gola squarciata, il suo sangue perduto.
C’è solo da chiudere per sempre il coperchio di questa pattumiera trasmittente e sperare che un magistrato di buona volontà scovi e comunichi al mondo intero chi – tra le forze dell’ordine – ha diffuso e presumibilmente venduto il filmato.

L’Expo, la gioia, i dubbi

Milano vince l’Expo del 2015. L’Italia finge di gioire per una festa annunciata. La politica si contende il boccone buono, quello dei meriti.
L’Esposizione Universale è una manifestazione di enorme prestigio che muove una macchina di miliardi e promette decine di migliaia di posti di lavoro. Un sogno che s’avvera, insomma. C’è un solo difetto: questa stella brillerà solo tra sette anni.
In sette anni Milano-Italia dovrà presentarsi puntuale, ben vestita, preparata e, soprattutto, ancora in vita. La città-Paese dovrà tradurre promesse in gesti di governo. Si dovrà riuscire nell’impresa di evitare che gli appalti finiscano in un’aula di giustizia. Ci vorranno più braccia che tasche. Si dovranno celebrare intelligenze e genialità più che amicizie e consociativismi.
La metropoli-nazione ridisegnata potrà godere della Luce Universale se i suoi cittadini-compatrioti si riconosceranno ancora in essa. E se verrà confutata quell’italica e becera teoria secondo la quale tutte le buone occasioni sono state inventate per essere sprecate.

Il tramonto di Alitalia

Due o tre cose sull’ Alitalia e sull’alitosi politica che ammorba l’aria di questa primavera pazzerella.
Il dramma economico che la compagnia di bandiera sta vivendo – e non da oggi o da ieri – è il risultato di scelte palesemente sbagliate, di sprechi, della vista corta dei suoi amministratori. Non ci vuole una grande esperienza per capirlo, basta fare due più due. In qualunque società del pianeta se i conti non tornano la colpa è di chi quei conti non li ha fatti o li ha fatti male. A meno che non si sia affetti dal morbo del complottismo e si abbia il coraggio di sostenere che il colpevole è il registratore di cassa.
Mi preoccupa la sorte di migliaia di lavoratori, ma mi preoccupa anche il populismo di chi attribuisce allo Stato il ruolo obbligato di salvatore dell’Alitalia. Ci sono, nel nostro Paese, molti cassintegrati, migliaia e migliaia di precari, eserciti di disoccupati: perché mai un governo dovrebbe preoccuparsi solo di quelli (eventuali, e incrociamo le dita) della compagnia di bandiera? E’ una domanda antipatica, lo so. Dà fastidio persino a me che la scrivo: però è una domanda legittima. Qui trovate un altro punto di vista, non proprio dissimile dal mio.
Berlusconi ne ha fatto, ovviamente, una questione elettorale. In modo malcelato, come è suo costume. Ha annunciato cordate italiane che si manifesteranno in tutta la loro lungimiranza e potenza economica solo dopo il 14 aprile. E’ un caso?
Non è un caso che a ogni sua dichiarazione la borsa traballi, i titoli oscillino come equilibristi ubriachi, l’aria si faccia sempre più irrespirabile. Qualcuno dovrebbe ricordare a questo signore che quando si ricoprono importanti cariche politiche e/o istituzionali le parole non sono pietre, ma qualcosa che vale molto di più.

Trilogia del sesso perduto/1

di Verbena

“Date voce alla convinzione
latente in voi, ed essa
prenderà
significato universale”.

Ralph W. Emerson

Mia nonna Pina abitava al nono piano di un palazzaccio bianco, costruito a ridosso di una piazzetta sconcia e malfamata. Di bello, quel condominio, aveva solo il colore delle persiane: blu cobalto. Il condominio è ancora lì, e lì dentro è come se ci fossi rimasta io, che ho sempre cinque anni, che saltello ancora sui tavoli dei vicini di casa e mi esibisco in “Piange il telefono” professandomi più brava della Guadagno.
Ogni tanto me la sogno, quella casa che odorava di ragù. Pure il terrazzino sogno, piccolo e impicciato dai miei giochi e dalle piantine.
E dalle zucche. Mia nonna le adorava e da brava massaia non buttava niente, e seccava i semi al sole.
E allora, direte voi?
Allora c’è che l’altra notte, insonne come spesso capita, ho compreso cosa significa rimuovere un ricordo per almeno trentadue, lunghissimi anni.
Ho ricordato di un pomeriggio, probabilmente estivo, sul terrazzino. Io con la gonnellina e le mutande in bella vista e i semi di zucca, non so per quale motivo, adagiati su un telo. Il telo stava per terra. E io stavo sopra il telo a giocare con i semini. Sarà stata la fase dell’ invidia del pene, fatto è che un pugno di semi li andai a nascondere proprio dentro, o per i più colti dentro. Là dove mia nonna ebbe cura di svuotare il tutto poco dopo, sbraitando per una buona mezz’ora. Ma non è questo che ho rimosso. L’episodio dei semi nel corso della mia vita è riemerso di tanto in tanto. Quello che ho seppellito nei meandri del mio inconscio è stato il seguito, di cui oggi decido di liberarmi consegnandolo sotto forma di byte a tutto l’universo mondo.
Signori, la fantasia dei bimbi è perversa. Aveva ragione Freud. Nel mio cervellino la verità si confuse con la fiction. Subito dopo l’episodio credetti che quei semi, in realtà, li avessi prodotto io. Che li avesse, insomma, figliati il mio fiore segreto. Credetti che la mia porta d’accesso ai misteri della natura sfornasse di norma semi di zucca, e che anzi tutti gli accessi femminili fossero ovviamente destinati a produrre semi, che poi tutte le brave nonne del mondo dovevano seccare al sole.
Quest’idea non si smosse dal mio cervello per almeno quattro anni. Ne sono certa, adesso vi dico il perché. I miei non erano, quello che si dice, genitori socievoli. Soltanto a nove anni mi portarono a vedere la mia prima festa patronale con la Santuzza, e tutti gli annessi e i connessi. Non furono i fuochi d’artificio ad incidere nei miei ricordi di bimba. No. Furono i banchetti di calia e simenza. La simenza, soprattutto. Fu allora che compresi la vera finalità della mia (ancora) acerba identità femminina. Sfornare semi su semi, che forse le nonne raccoglievano in pudico silenzio al momento del cambio biancheria, per poi consegnarli ai terrazzini ed infine al pubblico palato, opportunamente salati.
Trovai la cosa un po’ antigienica ma in fondo non disdicevole, e comunque naturale. Oggi direi biologica.
Ogni tanto mi chiedo perché mia figlia, che ha sette anni, sa perfettamente da dove vengono i semi di zucca e, credo, anche da dove vengono i bambini. Poi mi chiedo perché la piccola Verbena che sono stata abbia creduto per così tanto tempo ad una teoria così stramba. Rispondetemi voi, magari. Ma non infierite.

Video ergo sum

Per rinfrancar lo spirito tra una lagna e l’altra, ecco a voi una “pregiata” (e per fortuna breve) esibizione del sottoscritto su Another Tv. L’occasione è un monologo-arringa della mia amica Valentina Gebbia che io interrompo per un minuto scarso, tipo il rompicoglioni Paolini. L’accento tradisce le mie origini padovane… Pronti? Via.

Giornalisti…

La faccio breve. Oggi mi sono dimesso dal giornale in cui ho lavorato per oltre vent’anni. Ho svuotato i cassetti della mia scrivania, stretto mani e baciato guance (e non viceversa), staccato le foto dalle pareti… Soprattutto ho apprezzato una parola del comunicato del cdr che mi riguardava: “galantuomo”. Questo termine, abbastanza desueto, mi ha fatto riflettere. Non mi sono mai considerato un buono, anzi mi sono sempre ben guardato dall’esserlo. Per via del mio ruolo ho dovuto amministrare spesso con durezza uomini e risorse. E altrettanto spesso sono caduto nell’errore dei finti forti, rovesciando su teste altrui quote di tensione che erano solo mie.
Ho sbraitato e sbattuto telefoni, ho sbuffato e ringhiato. Ho pagato qualche pizza notturna e scroccato sigarette a più non posso. Ho litigato via sms e mi sono riappacificato davanti a un paio di birre.
Ma con molti colleghi ho anche festeggiato, ho sghignazzato, sono stato in vacanza, ho fatto ore piccole e grandi minchiate. Grazie ad alcuni sono cresciuto, per colpa di altri sono regredito.
C’è un solo motivo per cui oggi hanno usato quella parola che non merito: i giornalisti quando sono a corto di notizie, inventano.

Per protestare


Il buon Salvatore Mangione, ieri, mi ha fatto un bel regalo: ha preso una frase del mio post sulla vergogna cinese delle Olimpiadi e ha costruito quel che vedete sopra. Queste immagini sono a disposizione di chiunque le voglia inserire nel proprio blog o comunque di chiunque le voglia utilizzare per una sana protesta. Se le volete in risoluzione maggiore scrivete. Offriamo io e Salvatore.

Olimpiadi, tutti a casa

Non sono un rivoluzionario. Anzi, con l’età che avanza, mi sono trovato sempre più spesso su posizioni critiche nei confronti della protesta plateale come espressione utile alla costruzione di un dissenso che non abbia zampe d’argilla.
Il ruolo della Cina prima ora e adesso, la sua politica arrogante, il suo machismo orientale eppure molto americano, il suo diarroico seppellimento di ogni diritto umano, la sua crudele mannaia su ogni gesto di opposizione suscitano però sdegno, schifo… voglia di rivoluzione.
L’esempio di ieri è da far annodare le budella.
Nel cuore dell’antica Olimpia, l’inaugurazione dei Giochi di Pechino è stata oltraggiata dalla censura in mondovisione della manifestazione di protesta contro la repressione cinese in Tibet. Mi viene da pensare a una disinvolta ostentazione di potenza, ma forse dovrei riflettere meglio sul rincoglionimento del mondo occidentale. Quando ci sono muscoli e denaro in campo le superpotenze si nutrono di distinguo e sono stitiche di strappi, decisioni, risoluzioni. Eppure lo capisce anche un bambino che queste olimpiadi tradiscono in modo definitivo il senso millenario della competizione sportiva per eccellenza. Senza lealtà, l’agonismo è vuoto. Un Paese che schiera l’esercito contro i monaci inermi non è degno di organizzare neanche una gara di bocce al lido Mareblu.
Insomma, c’è un solo modo per giocare questa partita sulla quale la Cina ha investito il massimo delle sue paludate risorse: starsene tutti a casa.

Un panettone nell’uovo di pasqua


Ecco stralci dell’intervista di Vittorio Zincone a Roberto Torta che sarà pubblicata giovedì prossimo sul magazine del “Corriere della sera”.

Finisce di mangiare il suo panino con le panelle e sospira. “Lo vede questo mare? Io so che posso renderlo più azzurro”. E mentre lo dice, Roberto Torta ha gli occhi ancora più languidi.
Poco più in là, i manifesti elettorali disegnano slogan: serenità, serietà, armonia, parole che inneggiano all’ottimismo. Sul suo, invece, Roberto Torta, ha fatto scrivere semplicemente: “Vota Roberto Torta. Ce n’è per tutti”. Quest’uomo, così etereo e così pragmatico, è candidato alla Presidenza della Regione Siciliana. Il settimo. Ed è al settimo cielo perché fra pochi giorni volerà in America per appoggiare la candidatura di Obama. “Sa, me l’ha chiesto come favore personale – dice quasi sottovoce – e non ho saputo dirgli di no”.
Torta, come ha iniziato la sua attività politica?
“Con il condominio. Ho amministrato un condominio di 12 piani. Tre famiglie per piano. Faccia un po’ lei i conti. Chi la voleva cotta, chi cruda, chi a bagnomaria. Chi innaffiava i gerani e bagnava la biancheria della signora del piano di sotto. Chi metteva lo stereo ad alto volume. Lì ho capito l’arte della mediazione e della condivisione”.
Come immagina la sua Sicilia?
“Come un Triangolo a quattro lati. Tre è il numero perfetto, lo so, e quest’Isola ha avuto sempre tre lati. Ebbene, aggiungerne un altro, è un sogno possibile”.
Si parla molto del suo elettorato femminile. E’ vero che come vicepresidente ha scelto una donna denominata “la suocera”?
“Sì, l’ho voluta fortemente. E’ l’unica in grado di far capire il profondo senso delle parole. L’elettorato femminile è una forza”.
Facciamo il gioco di Proust. Se fosse un albero, Roberto Torta, cosa sarebbe?
“Un fico. Con tante foglie in affitto”.
Se fosse un libro?
“Aperto. Alla pagina dei ringraziamenti”.
La canzone che fischietta sotto la doccia?
“Tutte quelle della Tatangelo. Le dico un segreto.. me le ha insegnate Cacciatorino. Ed anche per far felice lui la inviterò alla chiusura della campagna elettorale”.
Il giorno più triste?
“Deve ancora venire”.
Il giorno più felice?
“Quando viene”.
Quanto costa un litro di latte?
“Il giusto”.
Quali sono i confini di Israele?
Non c’è il tempo per questa risposta. Camminare per Mondello con Roberto Torta significa fermarsi in tutti i bar, stringere mani, fotografare e farsi fotografare coi cellulari. Lui ha sempre una parola per tutti e mentre ci salutiamo mi guarda con quegli occhi azzurro – mare pulito sottoscritto da Goletta Verde e mi dice: “Sa cosa vorrebbero trovare i siciliani nell’uovo di Pasqua? Il panettone!”.
Tutto si può dire di Roberto Torta. Ma le minchiate le dice meglio di qualsiasi altro politico.