Martirio quotidiano

C’è un’evoluzione nel metodo Travaglio, quella sorta di cerimonia sacrificale e laica che consiste nel prendere un preconcetto ed elevarlo a fatto acclarato senza inciampare in un minimo scalino di coscienza. È il finto martirio dopo la condanna. Marco Travaglio ha diffamato il padre di Matteo Renzi e un giudice lo ha condannato. Accade, purtroppo, di sbagliare: solo che il Fatto quotidiano ha sbagliato non una, non due, ma tre volte nello specifico dato che sono tre gli articoli contestati. D’accordo, accade di sbagliare e reiterare l’errore. Si può scegliere di chiedere scusa oppure di tirare dritto a testa alta. Invece Travaglio che fa? Usa il suo preconcetto per martirizzarsi da solo, affermando di essere stato condannato per una parola sbagliata inserita in un contesto in cui la sostanza dei fatti era fondamentalmente esatta. Che è come dire: io scrivo che sei un ladro disteso su un campo di margherite, mi condannano per il ladro, ma le margherite c’erano tutte. Poi la ciliegina sulla torta: Renzi non ha mai pagato per le sue balle. E qui si rasenta il sublime, accostando in pieno stile travagliesco un reato (il suo, cioè la diffamazione) a un’eventuale panzana (quella di Renzi) che reato non è.
Gran finale con appello ai lettori del Fatto quotidiano a sostenere il giornale in questo momento così difficile. I lettori rispondono, ed è un sollievo per tutti che un giornale riesca a sopravvivere agli errori di chi lo dirige.

A futura memoria (politica)

 

dimissioni renziAd averceli primi ministri che si dimettono così, con classe e stile moderno. A meno che non preferiate i fuggitivi o i poltronisti.

Obama, Renzi e la stele dell’ignoranza

Obama e Renzi

Guardando la diretta Facebook della conferenza stampa congiunta di Barak Obama e Matteo Renzi mi ha colpito un dettaglio ormai non più secondario: i commenti degli utenti italiani. Tutto un miscuglio di schifezze, di offese a raffica, di qualunquismo becero. La frase più ricorrente, piena di una violenza subliminale, strisciante come quella dettata dalla non conoscenza, è: tornatene a casa che abbiamo problemi più gravi.
Non funziona così. Non funziona così da nessuna parte del mondo civilizzato. A parte quel briciolo di orgoglio nazionale che dovrebbe accompagnare il capo di un governo, un governo qualsiasi purché sia vagamente democratico, nelle sue missioni diplomatiche, c’è una ragione molto più valida per ritenere gli attacchi a raffica all’istituzione (badate, non parlo di Renzi come persona) un esempio di somma inciviltà: il criterio della rappresentatività.
Si può essere d’accordo o no con un governo, si può aver votato o no la parte politica che decide le nostre sorti, ma non si può dileggiare un’istituzione nel momento in cui fa l’istituzione. Persino con Berlusconi, che era un impresentabile guascone, l’asticella dell’odio gratuito era più alta. Con Renzi, nell’epoca in cui tutti sanno tutto perché non si occupano altro che del dire su tutto, questa vergogna italiana – perché lo sapete che è una tipicità italiana, vero? – ha raggiunto il suo apice. Sino a quando non saremo un popolo unito davanti ai suoi simboli, saremo solo l’eterna regione ai confini dell’impero. Sino a quando non impareremo che il dissenso non è offesa e dileggio, ma ragionamento e strategia, saremo solo un’accozzaglia di nickname sulla stele che più ci meritiamo. Quella dell’ignoranza.

Leggere con moderazione

imageimageimage

Oggi i lettori renziani di Repubblica rischiano l’overdose.

Renzi e renzismo, reloaded

Qualche mese fa scrissi perché era giusto che Renzi ci provasse, anche in nome e per conto di chi lo osteggia. Mi pare giusto sottoporre nuovamente al vostro giudizio questa riflessione.

I proprietari della Rai senza maglietta e senza tessere

GiornaliRisme

Un estratto dall’articolo di oggi su La Repubblica.

L’altro giorno al comizio di Matteo Renzi a Palermo, tra i contestatori c’erano per la prima volta dei giornalisti, giornalisti della Rai. Protestavano per il piano di tagli annunciato dal premier che vuole contenere gli sprechi nell’azienda radiotelevisiva pubblica italiana. “La Rai siamo noi” c’era scritto sulle magliette dei contestatori e mai senso di appartenenza fu più opportuno: perché quando la situazione è difficile, la chiarezza è come l’acqua santa sulla fronte dell’indemoniato, brucia ma serve.
Chiarezza quindi. E’ vero, molti giornalisti della Rai (…) hanno fatto anni e anni di gavetta e si battono per un’informazione equilibrata e non equilibrista. E’ vero, quando un governo mette mano a ristrutturazioni di aziende c’è sempre il rischio che nella foga ci vadano di mezzo i poveri lavoratori.
(…)
Ma è anche vero che, proprio quando si parla di informazione, non si può raffigurare una realtà piatta, bidimensionale. Negli anni passati alla Rai siciliana ci fu una memorabile tornata di assunzioni di giornalisti. Si entrava per segnalazione politica e non era un segreto. C’erano le quote: tot al liberali, tot ai repubblicani, tot alla Dc, tot al Pds, eccetera. Il primo degli sprechi è quello che incide sulla credibilità: per anni l’unico tesserino che alcuni colleghi hanno portato in tasca non è stato quello professionale ma quello di partito, e ciò ha finito per danneggiare il prodotto. Un prodotto che ha un involucro immenso e probabilmente sovradimensionato. Un prodotto fatto in un’Isola che stringe la cinghia e che non ne può più di disparità. “La Rai siamo noi” è quindi un ottimo slogan. Perché la Rai è di tutti, anche di quelli che non hanno quella maglietta.

Governi domiciliari

Mai uno che stia al suo posto

Tutto pensavo di leggerre tranne: “Pelù attacca Renzi”. Ora mi manca solo: “Pupo riscrive il Dpef”. Oppure: “I Righeira bocciano la Merkel”. O ancora: “Pioggia  di emendamenti dalla Spagna (Ivana)”.

L’argine contro l’imbarazzo

Non accettiamo ultimatum di nessuno, men che meno che da Renato Brunetta.

Non sono uno affascinato da Renzi, però quel che mi aspetto da un premier che vuole ricostruire un paese raso al suolo dalla corruzione e dalla protervia dei potenti è esattamente questo. Un muro contro i ricatti. Un argine contro l’imbarazzo di dover sottostare ai diktat di personaggi come Brunetta.
Ci piaccia o no, Matteo Renzi è in questo momento la sola strada percorribile in una giungla di ingovernabilità e di populismo. Ci piaccia o no, dobbiamo lasciarlo fare. Del resto in un passato mai troppo lontano (e purtroppo indimenticato) abbiamo dato fiducia a imbonitori, giocolieri, prestigiatori, ci siamo lasciati incantare come topi da pifferai in playback, abbiamo affidato il nostro destino a soubrette travestite da onorevoli e a onorevoli che non valevano manco mezza soubrette.
Ora mi piace credere – senza avere mezza certezza, per carità –  che finalmente ci sia qualcuno che va avanti seguendo fedelmente un programma in cui rischia il culo, il suo. Sino a qualche tempo fa era solo il nostro.

Renzi e il timone dei desideri comuni

matteo renzi fiducia senato

In un Paese sfibrato dalle promesse a vuoto e rimbecillito da decenni di politici imbonitori che non erano né politici né imbonitori ma solo truffaldi di quart’ordine, Matteo Renzi ha un’occasione unica: ridare senso alle parole. E lui che ne maneggia di semplici e ruffiane, può riuscire nell’impresa a patto di mantenere saldo il timone dei desideri comuni.
La politica come la conosciamo in Italia ha sempre giocato con le pulsioni del desiderio condiviso. Tutti sognano ricchezza, salute, felicità e tutti i precedenti governi hanno promesso prosperità e salvezza gratis. In realtà sappiamo, da cittadini del mondo, che per avere una minima patente di attendibilità bisognerebbe dire innanzitutto a cosa si dovrà rinunciare per ottenere quel che si è promesso: ad esempio, meno spese militari e più mostre e concerti pubblici; oppure meno tasse e più servizi sanitari a pagamento.
Qualche anno fa ci fu uno che, qui da noi, promise addirittura di abolire il cancro ancor prima dell’Imu. E non si era che a un piccolo capitolo del grande libro dei sogni non già irrealizzabili, bensì improponibili. Eppure gli credettero.
Le cazzate da noi hanno un effetto anestetico, ma solo se sono enormi. Non perdoniamo le inezie, siamo inflessibili sugli strafalcioni lessicali, ma quando si tratta di immense mistificazioni tipo quella della crisi che non c’è , tutti lì ad annuire, a lasciarsi sedurre dal fascino della panzana stratosferica. Perché se questa intercetta il desiderio comune, scatta una sorta di moratoria della buona creanza.
Ed ecco Renzi. A parte le riforme e la necessità di rimuovere le macerie sociali di un Paese che vive un’infinita sfilza di day after, il nuovo premier ha il dovere di dire innanzitutto cosa non potrà fare. La plausibilità di un progetto politico che si rispetti ruota attorno al perno di parole congrue. Non più sogni che nascondono incubi, non più padroni che si fingono operai. Ma concetti semplici per capire se siamo vivi o morti, se puntiamo alla sopravvivenza o se confidiamo ciecamente nella resurrezione.