La Fiat? So io a chi affidarla

C’è stato un momento, qualche tempo fa, in cui ho provato un’istintiva simpatia per Sergio Marchionne. Mi dicevo, un manager che deve far quadrare i conti della maggiore azienda automobilistica italiana deve avere due pneumatici al posto dei c… Non era semplice mettere in atto strategie per allontanare la crisi, salvaguardando l’integrità del gruppo.
Poi, a poco a poco, qualcosa si è frapposto tra me e quella figura. Col passare del tempo e con l’inasprirsi delle vertenze, Marchionne tirava fuori dal cilindro le soluzioni più estreme per tacitare le voci di dissenso che sono inevitabili in sede di vertenza.
E’ giusto che un’azienda pensi alla solidità economica, ma è altrettanto giusto che lo faccia senza deragliare dai binari della buona creanza. La Fiat non è una fabbrica qualunque, lo sappiamo. Ha goduto di scudi, agevolazioni e persino di sconti (ovviamente non ufficiali) giudiziari. E’ stata il marchio dell’Italia a spese dell’Italia.
Ora Marchionne minaccia di delocalizzare tutta la produzione, di abbandonare il Paese se le sue condizioni non saranno approvate.
Prima domanda: ci vuole un supermanager per usare un’arma di simile ricatto?
Per meno di metà dell’onorario dell’amministratore delegato del gruppo Fiat quanti di noi non si farebbero venire idee ancora più ad effetto e/o devastanti?
Usare lo spauracchio dei licenziamenti di massa per sfuggire al ragionamento, a una minima contrattazione, alla trattativa è la soluzione migliore per ottenere il risultato peggiore.
Seconda domanda: ma se la Fiat puntava a tanto, che motivo c’era di affidarsi a uno come Marchionne?
Bastava un Pinco Pallino qualunque, dotato di voce tuonante: “E qui comando iiio, e questa è casa miaaa…”.
Il mio portinaio sarebbe il candidato ideale: con meno di millecinquecento euro al mese delocalizza, ristruttura, sposta, combatte, taglia, rateizza, licenzia.  E alla fine ridipinge pure le pareti.

Licenza di licenziare

Nella manovra economica del nongoverno Berlusconi spunta la libertà di licenziare. In un momento in cui bisognerebbe inseguire, scovare, perorare l’unità del Paese per uscire dalla più pericolosa crisi finanziaria dei tempi moderni, l’idea geniale è stata invece quella di disgregare il corpo sociale, mirare al cuore del sindacato, fare l’occhiolino agli industriali (che peraltro hanno già mandato a quel paese il premier e la sua cofanata di bugie).
E’ come se per risollevare il mio bilancio familiare, io facessi perdere il lavoro al garzone del salumiere sotto casa.
Segno dei tempi. La differenza tra una carognata e una scelta strategica è quasi invisibile quando ci si muove nel torbido.

Lo sbadiglio e la democrazia

Ieri sera ad Anno Zero è andato in onda il dramma della disoccupazione in un Paese governato dal partito del milione di posti di lavoro. Realtà contro promesse: antica contrapposizione che non sarebbe scandalosa (la politica è fatta anche di promesse) se non si urlasse al complotto ogni volta che a un annuncio non si è stati in grado di far seguire i fatti.
La crisi internazionale usata come alibi, la distrazione di un consiglio dei ministri che si occupa al 99,9 per cento di come risolvere per via extragiudiziaria i problemi giudiziari del capo, un’indolenza tattica della classe politica che parla di lavoro solo in termini generici per evitare di affrontare le singole spine dei singoli casi: lo scenario è questo, desolante e noto.
La sensazione è – correggetemi se sbaglio – quella di essere amministrati da gente che abita e lavora in un altro pianeta. Mentre in Parlamento si dibatte di processo breve e di lodi vari, ai confini dell’impero c’è chi fa la fame con moglie e tre figli. Mentre in Parlamento gli stipendi restano quelli che sono, altissimi, altrove si campa con meno della metà di quel che si guadagnava prima.
Lo so, il rischio di cadere nella banalità, nel già visto e già sentito è altissimo.
Però ogni tanto dovremmo ricordarci che la democrazia si spegne quando per egoismo uno spunto di indignazione si trasforma in uno sbadiglio.