Da Santillana del Mar a Comillas.
Oggi, durante il mio cammino, ho postato su Facebook un breve video che testimoniava, spero abbastanza ironicamente, la mia fatica: ero brutto e sfatto come deve essere uno che ha già trecento chilometri sulle spalle e ne deve fare ancora più di cinquecento (punto al Nobel per l’autolesionismo e ne pubblico un frame sopra). Uso abbastanza i social come short version del mio diario di viaggio: l’extended version è, come sempre su questo blog, nel quale sono stipati i ricordi di molte avventure dell’ultimo decennio.
Sono in perfetta armonia col mezzo tecnologico in questa missione analogica poiché mi regolo secondo l’antica regola del cum grano salis. Spesso mi muovo in zone non coperte telefonicamente, oppure sono in situazioni che richiedono grande attenzione, oppure sono estasiato da un panorama o massacrato da una salita/discesa. Se voglio testimoniare quel momento con una foto o con un filmato mi fermo, ne approfitto per prendere fiato, scelgo il grano di sale e scatto. Da buon purista del viaggio non mi piace la commistione con mezzi e tecnologie che mi distraggono dall’ambiente nel quale sono immerso, però io sto qui per raccontare.
E siamo al punto.
Chi vive di scrittura probabilmente potrà capirmi: faccio parte del partito di quelli che credono che la bellezza vada diffusa in ogni modo, che un’esperienza creativa, intensa come quella di un viaggio – per di più in solitaria – vada narrata. Perché siamo figli dei nostri tempi, non ci possiamo arroccare su posizioni di oltranzismo turistico.
Raccontare è un modo di vivere, non di duplicare esperienze, ma di credere che le avventure accadono a chi le sa narrare. E non parlo di abilità tecnica, di mestiere, ma di propensione, di attitudine alla curiosità. Per raccontare un’esperienza – nel tinello di casa come al Polo Nord, e spesso nel tinello accadono coseee… – non servono né una laurea, né un corso di scrittura creativa, serve solo un punto di vista. Sei tu e nessun altro in quel momento e vuoi che il succo di quella verità nutra quante più persone possibile. Perché solo così ti sentirai meno solo davanti alla potenza della porzione di universo nella quale hai la fortuna di sopravvivere. Raccontare significa ascoltare gli altri, non è un retwitt, non è un copia-incolla. È un atto di consapevolezza che ci libera dalla cecità degli odiatori da tinello, dai segaioli delle fake news, dai depressi di una dittatura prêt-à-porter che avvelena i pozzi del sapere con la nonchalance di un selfie vista Papeete.
Serve il coraggio di prendere in mano la penna della propria esistenza e scriverlo, quel romanzo. Senza che siano gli altri a farlo per te.
P.S.
Oggi la razione quotidiana di chilometri è stata ottima e abbondante, la Cantabria è molto bella e le sue colline spaccano le gambe. Ma il mio romanzo di oggi parlava d’altro
(13 – continua)
Le altre puntate le trovate qui.
A questo argomento è dedicato il podcast in due puntate “Cammino, un pretesto di felicità” che trovate qui.