C’è un anniversario niente male che sta passando in sordina. Riguarda i 13 anni dall’ultima puntata di Lost, puntata su cui si discute da allora, dove c’è questo dialogo tra padre e figlio che spiega l’inspiegabile (“In fondo nessuno muore da solo”).
Come alcuni affezionati lettori sanno, sono un estimatore della serie in questione e la ritengo uno snodo fondamentale della narrazione televisiva: siamo infatti ai confini del cliffhanger di cui parlavo qui e in prossimità di una nuova frontiera, quella del binge watching (vale il link di 18 parole fa).
Ha raccontato Luca Sofri che un giorno “una quindicina d’anni fa un neonominato direttore di un giornale, che voleva avere attenzioni alla contemporaneità e alle culture dei millennials (che allora nessuno chiamava così), gli chiese dei consigli per aggiornarsi: e lui gli rispose «hai visto Lost?». (non lo aveva visto)”.
Perché la dirompenza di una serie che ancora oggi fa discutere è proprio la sua eterna contemporaneità, quasi un ossimoro, in quanto serie fuori dal tempo e dai tempi: credo che dal punto di vista meramente tecnico in Italia solo Pasolini abbia saputo esplorare narrativamente terreni così incolti e difficili.
La forza propulsiva si basa, oltre che sui personaggi e sulla genialità del creatore J.J. Abrams, sui cosiddetti sideways, elementi cinematografici laterali che non raccontano una realtà alternativa: è questo un concetto fondamentale per entrare nello spirito innovativo di Lost. Perché nel corso delle stagioni ci sono i flashback e i flashforward, cioè i viaggi indietro e avanti nel tempo.
Ma ciò che accade nei sideways, nella logica della serie, non è mai successo per davvero. Essi inquadrano un mondo che non ha una precisa collocazione nello spazio e nel tempo. Quindi vanno presi come inserimenti che non influiscono, non devono influire, nella plausibilità della storia: che è tutto tranne che plausibile, e per fortuna.
Detto questo è facile smontare teorie – peraltro divertenti – tipo quella secondo la quale i 48 passeggeri sopravvissuti all’incidente che dà origine alla storia – quando il 22 settembre 2004 l’aereo di linea 815 della compagnia australiana Oceanic Airlines, in volo da Sydney a Los Angeles, precipita su un’isola apparentemente disabitata – erano già tutti morti al momento dello schianto.
No, l’isola è un luogo in cui si celebrano le paure del mondo, in cui si combatte una guerra senza tempo tra il bene e il male, è soprattutto una meravigliosa infinita ode alla ciclicità delle maledizioni e un antidoto al mefitico lieto fine obbligato che non esiste (del resto la fine non è mai lieta, semmai può essere indolore).
Insomma Lost ci insegna non solo come si scrivono le sceneggiature anche quando non hai la minima idea di dove le tue fantasie ti porteranno, ma soprattutto come si guarda un’opera complessa come quella che non deve per forza consolarti, non deve per forza essere un ABC con tanto di disegnino, non deve per forza esaurire la sua spinta emotiva dopo l’ultimo dei titoli di coda.
Se non l’avete mai vista, guardatela. Molto e molto altro vorrei dirvi, ma non voglio spoilerare ulteriormente la serie più spoilerata della storia.
Se l’avete vista e volete riviverla in brevi riassunti, qui c’è qualcosa che vi può interessare.
Mi è piaciuto fin d’allora ma ,per interferenze altrui,è necessario che lo riveda. La fine è meravigliosa!