Chiamiamolo relativismo della povertà. È il capitolo più irritante dell’irritante storia infinita delle disparità sociali. Funziona così: tu sei una persona che guadagna, mettiamo, sei- sette-otto mila euro al mese e siccome hai fatto molti debiti, e ti sei imbarcato in un tenore di vita molto al di sopra di quel che una persona saggia si permetterebbe, sei autorizzato a piangere miseria.
Accade – secondo quel che scrive Riccardo Arena sul Giornale di Sicilia – al giudice Silvana Saguto, intercettata dagli inquirenti mentre si sfoga con l’amministratore giudiziario Gaetano Cappellano Seminara: “Sono disperata… non ce la posso fare più… devo trovare qualcos’altro… devo vendermi la casa… mi tagliano la luce”. Frasi che uno si aspetta da un povero disgraziato, da un disoccupato, non da un magistrato di quel livello.
La povertà on demand non è una novità delle nostre cronache. Quando fu beccato con le mani nella marmellata (leggi: mazzetta), Roberto Helg schiacciò subito il telecomando della personale disperazione e imbastì la scena madre di un uomo economicamente disperato nonostante un reddito mensile di circa ottomila euro. Colpa dei debiti, piagnucolò.
Per molto meno, diciamo la metà, Gianfranco Miccichè rischiò la gogna mediatica quando s’incartò in un ragionamento che partiva dai fatti suoi – figli, università dei figli, diaspora dei figli, insomma figghi – e arrivò a sparare un pericolosissimo proiettile caricato a grani di incoscienza, dichiarando: “Con la sola pensione di parlamentare da 4 mila euro al mese non si può vivere bene”. Bum!
Certo, nulla in confronto con la madre di tutte le corbellerie a mia memoria, risalente a otto anni fa. Era agosto, faceva caldo e Lorenzo Cesa, allora segretario dell’Udc, ebbe una fulminazione che pareva metà miraggio e metà numero di Zelig. Pur di difendere un suo compagno di partito sorpreso mentre andava a puttane, ipotizzò un indennizzo ai deputati per ricongiungersi più spesso con la famiglia in modo da scampare alle “tentazioni della solitudine”. Perché – tenetevi forte – “la solitudine è una cosa seria e la vita da parlamentare è dura per chi la fa seriamente”.
Secondo il relativismo della povertà, non importa quanto guadagni, ma il tenore di vita che conduci. Il resto sono chiacchiere da pezzenti. Quindi se sei stato abituato a caviale e champagne (che per me è un’abitudine così così, molto meglio formaggio di fossa e Sassicaia), un’improvvisa carenza in tal senso sarebbe una grave colpa della società. Se hai approfittato della tua posizione, più o meno legalmente ottenuta (non è questo il punto), è sacrosanto che il mantenimento dei privilegi sia sancito dall’undicesimo comandamento: non avrai altro dio all’infuori di te.
Mai che ci scappi un brivido di realismo, ma che si inciampi in un’autocritica: ho fatto il passo più lungo della zampa, potevo accontentarmi invece di strafare e di strafarmi, la ventresca è buona ma ne basta mezzo chilo, specie se qualcuno te la regala.
Ecco il Grande Equivoco. Pensare che la propria posizione dominante sia un’elargizione del Divino e che, di conseguenza, sia inaccettabile il fatto che possa trasformarsi in una trappola. I ricchi che sfidano le leggi della logica costruendosi vite a misura di ricchi, senza prevedere uscite di sicurezza, fanno, per certi versi, più pena di tutti gli altri esseri umani pensanti che si muovono in sincrono con le pulsazioni del loro portafoglio. Perché ancor prima che dai debiti, dalle inchieste giudiziarie, dal pubblico discredito, saranno sepolti dalla marea oleosa del comune senso del ridicolo. Con fragore di applausi.