Oggi su la Repubblica.
L’ultimo negozio è morto perché a causa della nuova TaSC (Tassa Saracinesche Chiuse), il titolare pur di risparmiare aveva lasciato tutto aperto anche di notte: e siccome vendeva abiti usati, la merce più richiesta al giorno d’oggi, l’indomani mattina non ha trovato più nulla e ha dato fuoco al locale per riscaldarsi. Palermo, anno 2019, è inverno meteorologico e sociale. Strade semideserte e un’infinita sequela di locali vuoti, vetrine rotte, insegne cadenti. Lì dove c’era un bar, ora c’è una comune di ex impiegati di banca. Nello scheletro di quella che era una boutique di lusso, quattro vecchi giocano a scopa seduti su poltroncine di similpelle che un tempo accoglievano culi à la page. Su un marciapiede di via Ruggiero Settimo un clochard cerca di vendere quel bracciale d’oro che è l’ultimo legame alla vita di un tempo, quando lui era un gioielliere e il mondo girava nel verso giusto: fa freddo, deve comprarsi una coperta e il bracciale non scalda nemmeno con la forza della nostalgia.
La morte del commercio è stata una morte senza funerali, come accade con le estinzioni. Uno dopo l’altro, negozi piccoli e grandi si sono piegati sotto i colpi della crisi e la città ha adottato un sistema economico della notte dei tempi per cercare di rischiarare la più lunga notte del tempo in cui sia mai stata avvolta: ci si scambia i beni di prima necessità, si baratta il poco che si ha per il pochissimo che si può avere. L’unica oasi in questa landa di disperata solitudine è rappresentata da un immenso centro commerciale, dove i più fortunati trascorrono le ore del giorno (e talvolta della notte). Lì si usa ancora la carta moneta, ci sono scaffali colmi di merci davanti ai quali la gente scorre lentamente per riempire gli occhi prima ancora che la borsa della spesa. Il tempo si dilata, in questi templi dell’ottimismo d’acchito, giacché non è il livello della capacità di acquisto a fare la felicità degli avventori, ma quello della capacità di incontro. Nei centri commerciali si va per conoscersi e riconoscersi, per intrattenersi e sentirsi parte di una comunità che fuori da lì è un’ombra senza corpo.
Persino la mafia non è più quella di una volta. Senza pizzo da imporre, senza serrature da incollare, senza porte da dare alle fiamme, ha dovuto ripiegare nell’antica attività del contrabbando. Ma niente sigarette, costano troppo, stavolta si contrabbandano ricordi: con un prezzo popolare un vecchio boss ti riferisce le ultime frasi di un nemico prima di essere strangolato, o ti svela il colpevole mai scovato di un delitto del passato. Il ricordo è tuo e solo tuo, al limite se hai arte narrativa e un po’ di fegato, lo puoi rivendere. Inoltre, nel nome di quella che molti anni fa si chiamava spending review, il capo di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro, ha deciso di farsi chiamare Matteo Messina e basta, per non urtare la sensibilità dei suoi complici e per dare un esempio di sobrietà al Paese.
Con questi scenari apocalittici la politica non sta a guardare. Il governo regionale è un monocolore grillino, verde pallido, guidato da un giovane giocoliere da semaforo famoso per la sua onestà, dato che ogni giorno devolve un biscotto della sua colazione a favore del rifugio del cane. A lui e ai deputati del “Movimento tre stelle e mezza” (la mezza è un po’ smozzicata) si devono due importanti provvedimenti: la legge sulla separazione dei beni d’acquisto, secondo la quale se compri un chilo di pasta non puoi comprare contemporaneamente anche una scatola di pelati, per non fiaccare le riserve alimentari regionali; e il reddito infimo di cittadinanza che dà la possibilità ai cittadini più disperati – ma solo a loro – di riscuotere a scelta ogni mese o una moneta da 50 centesimi o tre bottoni (i bottoni vanno a ruba perché con le monete non si possono ripristinare vecchie giacche).
Però nella Palermo del 2019 non tutto è grigio.
L’ordine pubblico è garantito dal livellamento sociale. Gli unici cortei che animano le strade cittadine sono quelli dei figli degli operai della Gesip che chiedono la stabilizzazione per via ereditaria. Si tratta di manifestazioni incruente, perlopiù sponsorizzate dal Comune nell’ambito di un programma di rivitalizzazione del tessuto urbano, in cui gli aspiranti operai fanno finta di rompere vetrine già infrante, di dar fuoco a cassonetti di cartapesta (approntati ad hoc dagli scenografi del Teatro Massimo) e gli agenti sparano lacrimogeni al gusto di fragola, agitando manganelli alla liquirizia. Il risultato è una messinscena folkloristica che attira qualche turista, dà lavoro a poliziotti e maestranze teatrali, e risolleva l’unico mercato ancora in vita, quello del voto.
Nelle zone più periferiche della città, infine, dove la noia è ancora più dilagante della miseria, resistono sacche di nostalgici che si organizzano in centri sociali e si lasciano andare a pratiche sediziose come la recita, nelle notti di luna piena, della “preghiera della giovane vedetta bolscevica”, o come la “danza del peto” davanti a un manifesto elettorale in cui un vecchio leader di centrodestra prometteva la restituzione dei chili perduti per la fame.
Un paio di giorni fa un manipolo di questi scalmanati ha fatto irruzione nella bottega di un calzolaio per compiere un esproprio proletario di tacchi e suole: il ciabattino lo hanno trovato accasciato sul tavolo da lavoro, era morto da due anni. Colti dalla delusione sono andati vita senza toccare nulla,
hanno pure lasciato un’offerta.
…non male come sceneggiatura di un film apocalittico remake nostrano: “2019: fuga da Palermo”. Un film futuristico se fosse stato girato nel 1979! Speriamo che rimanga solo una possibile sceneggiatura anche se sembra che, dati alla mano, circa 1’000 esercizi commerciali in Italia chiudono definitivamente la saracinesca ogni giorno e ormai da diversi mesi.
bravo gery! quando anche uno scenario tristissimo, grazie ad una fantasiosa ironia, riesce a sollecitare un sorriso.
Geniale…