Conosco una persona che ha dedicato la sua vita al lavoro e ai vantaggi che la professione poteva procurare. Una persona ambiziosa, molto, perennemente occupata e scarsamente impegnata. Raramente si è concessa uno svago o una digressione e quando l’ha fatto c’è sempre stato un secondo motivo che, come una tortuosa via secondaria, riportava in qualche modo al lavoro.
Una persona che ha scavalcato, sgomitato, pestato, macinato chiunque si parasse davanti pur di arrivare a un traguardo inutile, come può esserlo quello di chi pratica il potere solo per il gusto di infliggerlo agli altri. Gli altri, colleghi familiari e amici, erano pioli, scalini sui quali poggiare i piedi. Le uniche mani di cui si fidava erano le sue e quando non bastavano ne prendeva altre a prestito senza ripagarle, perché la riconoscenza, dalle sue parti, veniva considerata una forma di debolezza.
Oggi quella persona sta molto male e mi dispiace molto. Mi dispiace perché so che solo adesso sta valutando la merce che si è persa per strada, con uno straziante pentimento. Nella paura che, come scriveva Arundhati Roy, il ricordo della morte sopravviva molto più a lungo della vita che essa ha rubato.
Ho conosciuto una persona capace di trasformare il coraggio in presunzione di onnipotenza. Di tradurre la voglia di non diventare vecchio, nella pretesa di sfidare Dio.
Di non piantare un albero a ottantanni, sperando di lasciarlo quale degna eredità. Ma, sempre a quell’età, di cambiare auto di lusso, di prenotare vacanze intercontinentali, seppure nella consapevolezza di non potere partire, di sputarare dentro e intorno a se viscide dosi di orgoglio.
Di non accettare gli stop inevitabili della vita. Ho visto questa persona, a cui nulla mancava per ritenersi un uomo dalla vita fortunata, incarognirsi contro il tempo che andava e di quella sua nevrotica determinazione diventare vittima.
Di questo ne è morto e credo che la vita, che rimette a posto tutto, non gli abbia dato il tempo di pentirsi.