Professione precario

Illustrazione di Gianni Allegra
Illustrazione di Gianni Allegra

Sono tempi difficili. Migliaia di lavoratori, per colpe di chiunque tranne che proprie, hanno perso il lavoro. Il precariato è diventato il mestiere ufficiale. E nel segno di una crisi che tutto avvolge e molto nasconde, ci si piange addosso rimanendo immobili.
Ancora una volta – del resto questo è un blog, mica un servizio pubblico – devo citare un’esperienza personale.
L’altro giorno mi ha chiamato un’amica, direttore di un mensile che fa capo al più importante gruppo editoriale italiano. Lei mi ha esposto i suoi dubbi sul futuro dell’editoria. Abbiamo parlato dei nostri rispettivi progetti (i suoi molti più rilevanti dei miei), poi mi ha fatto una domanda: “Conosci persone che sappiano scrivere e che abbiano voglia di lavorare?”.
La sua domanda è stata la conferma a un convincimento che ho segretamente coltivato, in questi ultimi anni: una buona porzione di questa crisi di occupazione è figlia della mancanza di professionalità.
Il discorso vale ovviamente per i mestieri in cui la specializzazione ha un valore pari alla duttilità del lavoratore (che, per essere chiari, può decidere di mettere a disposizione la propria esperienza in cambio di un compenso riveduto al ribasso per evidenti fattori congiunturali).
Quasi un anno fa ho firmato la lettera di dimissioni da un’azienda per la quale ho lavorato ininterrottamente dal 1984. Non avevo un altro lavoro che mi attendeva, mi ero semplicemente rotto le scatole di un sistema che ritenevo scriteriato. Sono della linea di pensiero che tende a derubricare le scelte a semplici scommesse. Sono stato fortunato: oggi lavoro col massimo della libertà, guadagno il giusto (anche un po’ meno) e continuo a preoccuparmi per il futuro esattamente come facevo vent’anni fa.
Un parte, solo una parte, dei disoccupati di questo Paese sono figli (e purtroppo anche seguaci) dell’assistenzialismo che governo e opposizione tendono ad alimentare nel segno di un populismo che poco ha a che fare con la soluzione del problema. Gli aiuti una tantum, le elargizioni su larga scala che sulla porta di casa si traducono in spiccioli non portano a niente di utile.
Probabilmente già domani saremo costretti a cambiare ottica: lavori a progetto, massimo rendimento, sperando in una coltura intensiva dei talenti e nella responsabilizzazione al cento per cento. E’ una missione che riguarda ognuno di noi, senza colori politici né pregiudizi.
Non so quanto il nostro Paese sia pronto.

Pubblicato da

Gery Palazzotto

Palermo. Classe 1963. Sei-sette vite vissute sempre sbagliando da solo. Sportivo nonostante tutto.

53 commenti su “Professione precario”

  1. Caro Gery, cari tutti: provo ad allargare il discorso. La domanda della tua amica (“Conosci persone che sappiano scrivere e che abbiano voglia di lavorare?”) è sintomatica di un guasto che il precariato all’italiana ha provocato e che si tende a sottovalutare, di fronte al disagio di molti giovani. Il precariato è per loro soggettivamente un trauma bloccante. Ma in generale, oggettivamente, crea un disagio anche nell'”utenza”, che non ottiene più servizi adeguati, in nessun campo. In questo paese nessuno sa fare più il proprio mestiere. I camerieri non sanno servire a tavola, i centralinisti non sanno ricevere le telefonate, gli asfaltatori non sanno asfaltare le strade. Questo perchè camerieri, centralinisti e manutentori stradali non sono più motivati a imparare il loro mestiere, in quanto sanno che fra tre mesi dovranno fare un altro mestiere, completamente diverso. Il datore di lavoro non investe nella loro formazione, e con queste premesse perché dovrebbero investirci loro? Temo che le distorsioni della flessibilità stiano creando un danno strutturale alla società italiana, che va oltre le problematiche sociali e comincia a investire la sfera antropologica.

  2. Il datore di lavoro non solo ci marcia, sul precariato, ma spesso perde la brocca e il senso della realtà, oltre che il rispetto per la professionalità altrui (quando c’è). Mi va di appendere un panno sporco personale: qualche giorno fa un editore per il quale ho lavorato a lungo (con grande soddisfazione di entrambi, a suo dire) mi ha chiesto di fare un editing di più di mille pagine. Leggasi: non meno di un mese/due di lavoro, a voler essere ottimisti. Ho 41 anni, lavoro nel campo della scrittura da più di 15 anni ho pubblicato ovunque, curato decine di autori, etc. etc. Con un colpo di scena che in altri settori si definirebbe “demansionamento” e con una sospetta amnesia riguardo alle mie credenziali, l’editore mi offre per quel lavoro immane… 200 euro. Non ho il problema di mettere il piatto in tavola, grazie a Dio. Quindi, ho rifiutato. Ma quanti, al contrario di me, non possono permettersi di rifiutare? Sulla valutazione della prestazione “d’ingegno”, poi, ci sarebbe da scrivere un post a sé. Nessuno di sognerebbe di chiedere a un idraulico di aggiustare un sifone gratis. Ma di gente che pretende gratis “una cosina scritta” o addirittura un corso di scrittura è pieno il mondo. L’arte forse rinnova i popoli, ma bisogna anche dire che i popoli tendono a non sganciare un centesimo per l’arte.

  3. E aggiungo: essere pagato, soprattutto per un giovanissimo che comincia a muovere i primi passi nella missione impossibile di “fare l’artista”, è importantissimo. Non è una questione di avidità. E’ un riconoscimento di valore, un’iniezione di fiducia e di dignità indispensabile per andare avanti. Altrimenti ci si sentirà sempre dei dilettanti, e da dilettanti avviliti ci si comporterà.

  4. Condivido in pieno quel che scrive Roberto. Prendiamo il giornalismo. Chi abbiamo allevato, nelle redazioni, in questi ultimi dieci anni, con il comodo alibi della flessibilità in-maniche-di-camicia-american-style che altro non era se non precariato camuffato da nuova frontiera (alibi comodo per gli editori e con la connivennza criminale di Ordine e sindacato)? Solo una minima parte di questi ex ragazzi (media 32 anni) si trova oggi a lavorare in una redazione (e bisognerebbe chiederle se ne è contenta, visto che è quasi tutta forza-lavoro al desk). La maggior parte, invece, s’è creata un tira-a-campare fatto per l’appunto di assistenzialismo (indennità di disoccupazione), uffici stampa, pubbliche relazioni, malpagate collaborazioni su carta stampata e web. Tutti però hanno un meraviglioso tesserino professionale rilasciato dall’Ordine perché tutti hanno potuto acquisire i punti per andare a sostenere gli esami di abilitazione, punti raccolti un po’ qua e un po’ là come una volta i punti qualità, si comprassero detersivi o dadi per brodo poco importava. Chiaro che più nessuno abbia una competenza specifica, giornalisticamente parlando (e scrivendo). Altrettanto chiaro che siano saltati canoni di etica professionale (come fai a scriver male di qualcuno su un giornale che ti assume per 4 mesi l’anno se quel qualcuno ti aiuta a campare nei restanti 8 mesi?). Un esercito di scontenti mugugnanti, molti dei quali dequalificati o convinti che questo mestiere sia una cosa da abborraccioni furbetti, coscienza quasi a posto & partita Iva a postissimo. C’è qualcosa che non quadra, che funziona, che si inceppa in questo scimmiottamento dell’american way of live. Non so. Forse non siamo pronti, culturalmente, antropologicamente. E’ una patetica parodia. Siamo un po’ come Sordi, nella famosa scena dei “maccaroni”: questo glie’o dàmo ar topo, quest’artro so’ magna er gatto…

  5. Ieri (domenica mattina) ho litigato al telefono furiosamente con il direttore di un mensile nazionale (tiratura centomila copie) con il quale collaboro, anzi collaboravo, da circa sette anni (con vignette, strips, illustrazioni, tavole, etc). L’estate scorsa mi ha dimezzato il compenso e da qualche tempo mi faceva illustrare le sue battute (da un paio d’anni disegnavo solo la vignetta: illustrazioni e altre cose pagate anche piuttosto bene, tagliate). Si tenga conto che faccio satira da ventisei anni (ininterrotti), e nei primi anni novanta sono arrivato a disegnare per dodici periodici contemporaneamente). Faccio satira perché mi piace scriverla oltre che naturalmente disegnarla. Ma al direttore in questione, anche se un po’ dolorosamente, ho concesso il privilegio di suggerirmi temi e fiananche battute (eccezione unica ad un regola ferrea). Ieri ho scoperto che sull’ultimo numero ha tagliato la vignetta, tout court, appunto. Ho respirato, sono andato alla Feltrinelli a comprare tre libri, ho preso un caffè, ho passeggiato. Ho sfogliato il quotidiano con il quale collaboro con soddisfazione da dieci anni (se permettete tocco ferro e altre cose che non dico). Ho composto il numero del direttore del mensile e l’ho cazziato con gli occhi fuori dalle orbite e con la voce in crescendo. Tre anni fa collaboravo con tre-quattro testate nazionali più la pagina regionale del mio quotidiano preferito. Oggi mi resta il mio quotidiano preferito. E devo dire che sono più bravo di allora: lo so, ne sono pienamente consapevole. Ma mi sto estinguendo.

  6. L’ Italia è una repubblica democratica fondata sul lavoro precario, sulle morti sul lavoro, sul bavaglio al lavoro.

  7. @Gianni
    C’è anche un decoro, c’è un’aristocratica dignità perfino nell’estinguersi. Non ti conosco bene ma, secondo me, ti appartengono. Nel risvolto di copertina del mio (finora unico) libro, in quelle quattro noterelle gonfie di se stessi che l’editore reclama per far capire al lettore chi sei e che ovviamente non ho potuto che scrivere con l’autoironia che mi ha quasi sempre salvato, ho scritto: “A giorni alterni dissipa se stesso”. Nel dissiparsi e nell’estinguersi si è comunque, in gran parte, padroni di sè.

  8. dimenticavo: sul lavoro in nero.

    Gianni Allegra: si stanno estinguendo in tanti e tutti quelli che hanno
    ancora qualcosa da dire.

  9. @Totò e Faguni: grazie per la solidarietà.
    Estinguersi un po’ per volta (pur avendo ancora miliardi di cose da dire e meglio di prima) però è un po’ morire. Forse è meglio partire.

  10. @gianni
    Mia nonna che era una santa donna mi ripeteva sempre una frase che è diventata il mio motto quotidiano: “Maggiore il carico maggiore la forza”.
    Te la regalo.

  11. @gianni: non sai quanto ti capisco e quanto sono solidale con te. Anche nel mio settore professionale assisto a (o talvolta subisco) certe prese di posizione che un capo con una normale testa pensante non si sognerebbe mai di assumere. Ma mi consolo perché ritengo che non sempre abbiamo a che fare con teste pensanti.

  12. Riprendo alcuni passaggi dell’intervento di Totò Rizzo e del post di Gery Palazzotto perché così come sono stati formulati rilanciano qualche domanda.
    Quindi mi piacerebbe avere chiarimenti.
    Scrive Totò Rizzo:
    “La maggior parte, invece, s’è creata un tira-a-campare fatto per l’appunto di assistenzialismo (indennità di disoccupazione), uffici stampa, pubbliche relazioni, malpagate collaborazioni su carta stampata e web.”
    Condivido che esista una rilevante quota del “mercato” giornalistico rappresentata dagli uffici stampa, dalle pubbliche relazioni (spesso mal pagati), dalle collaborazioni su carta stampata e web, non condivido invece l’uso dell’espressione “la maggior parte invece s’è creata un tira- a campare- etc.. meglio sarebbe stato scrivere “è stata costretta a crearsi….
    Non credo che la maggior parte sia stata felice nel crearsi un tira-a campare- la maggior parte, piuttosto, avrebbe voluto essere assunta con garanzie e sicurezze che non sono assistenzialismo.
    Per anni tali garanzie e sicurezze sono state materia di diritto del lavoro, non certo dei sogni o delle illusioni di ragazzi e ragazze di belle speranze poi diventati adulti e precari.
    Scrive ancora Rizzo: “Un esercito di scontenti mugugnanti, molti dei quali dequalificati o convinti che questo mestiere sia una cosa da abborraccioni furbetti, coscienza quasi a posto & partita Iva a postissimo. C’è qualcosa che non quadra, che funziona, che si inceppa in questo scimmiottamento dell’american way of live.”
    Gli scontenti mugugnanti (non molti per la verità con la partita iva a postissimo) mi pare prendano un cantonata se sono convinti di fare soldi o carriera facendo i giornalisti. E davvero si scimmiotta l’american way of live? Mi pare una visione quasi romantica. La situazione è invece disperata.
    Quanto all’intervento di Gery mi ha colpito l’espressione: “ci si piange addosso rimanendo immobili”. La possibile spiegazione di questo immobilismo, la riprendo dalle parole di Roberto Alaymo: “disagio di molti giovani” .. “Il precariato è per loro soggettivamente un trauma bloccante”. Forse l’empatia, a volte, aiuta nell’analisi più di tante tesi sociologiche.
    L’amica direttore del mensile, infine, è inquietante se si esprime dicendo: “Conosci persone che sappiano scrivere e che abbiano voglia di lavorare”? queste persone di buona volontà l’amica direttore del mensile le proporrà mai al suo editore per un’assunzione?

  13. Ragazzi, stiamo discutendo del classico cane che si morde la coda, purtroppo.

  14. Cara Cristina, il mio post è una testimonianza quindi è frutto di un’esperienza personale che non può avere valore universale. Molti dei giovani mestieranti che ho conosciuto sono persone immobili e presuntuose: considerano la gavetta un fastidioso passaggio burocratico e pretendono che il tram del lavoro li passi a prendere direttamente sotto casa.
    Quanto alla testimonianza del direttore, non ci trovo nulla di inquietante. Anzi.
    Ribadisco: i nostri tempi ci impongono una revisione degli obiettivi. Finiamola di sognare le assunzioni (mi sembrano i famosi posti di lavoro berlusconiani), ma parliamo piuttosto di missioni, di progetti. La logica del posto fisso, mi duole dirlo, è stata in molti casi la tomba delle professionalità. Certo, come hanno scritto Roberto Alajmo, il Cacciatorino, Gianni Allegra, Toto Rizzo ed altri, i rischi ci sono sempre.
    Ma tra una strada rischiosa e una strada chiusa non mi sembra che ci sia scelta.

  15. Il dito nella piaga e il sale sulla ferita: mio figlio vuol fare il giornalista. Che ho fatto di male per meritarmi questo?

  16. Da diversi anni lavoro per una grande azienda leader nel settore abbigliamento e vorrei provare a darvi una visione “altra” sull’argomento del post di oggi, un punto di vista strettamente legato alla mia esperienza.
    Il mio ufficio del personale riceve ogni giorno decine di curriculum vitae di ragazzi in cerca di prima occupazione, e (sembrerà strano) siamo alla continua ricerca di figure qualificate per ricoprire i ruoli più svariati (area commerciale, amministrativa, visual, ecc.). Nel corso dell’ultimo anno abbiamo fatto tantissimi colloqui, i candidati ritenuti idonei hanno ottenuto il famigerato “periodo di prova”. Ebbene, vi faccio una piccola sintesi dei risultati. Su nove persone “provate”, solo una ad oggi è entrata a far parte dell’organico a tutti gli effetti. Le altre sono letteralmente fuggite di fronte al carico di lavoro che veniva loro prospettato, alle responsabilità, e, mi si conceda, alla possibilità di investire sul proprio futuro! Sto parlando di ragazzi di vent’anni terrorizzati all’idea di sforare le quaranta ore settimanali, annichiliti da orari a volte assurdi, è vero, ma legati soltanto a certi periodi. Sto parlando di totale mancanza di passione ed entusiasmo, di voglia di crescere ed emergere, sto parlando di “grazie, ma non me la sento. Troppo stressante e faticoso. Quasi, quasi faccio il provino per il Grande Fratello…”.
    Un esempio pratico che spero chiarisca ancora meglio il concetto: qualche settimana fa, in visita “ispettiva” su uno dei negozi che seguo, trovo un’addetta alle vendita “in prova” da pochi giorni, seduta placidamente in magazzino, in attesa dell’inizio del suo turno (mancavano una decina di minuti) mentre in negozio le sue colleghe giravano come trottole dietro a un’orda di clienti famelici (periodo saldi, vi lascio immaginare). Non credo ci sia molto da aggiungere.
    Vogliamo parlare di contratti? Tutto chiaramente regolare, con formalizzazioni che prevedono la tutela assoluta del lavoratore.
    Di fronte a questa pochezza di “risorse umane”, intesa stavolta in senso qualitativo, un’azienda seria dovrà pure cautelarsi. Da qui la scelta di utilizzare formule contrattuali più flessibili (i più in voga attualmente sono i contratti a progetto) ma che comunque garantiscono soddisfazione a tutte e due le parti interessate, suscettibili di essere trasformati successivamente nei tanto agognati “tempo indeterminato”. Indeterminato per merito, però!

  17. @La Contessa
    Non vorrei che il discorso si esaurisse a ” I giovani d’oggi non hanno voglia di lavorare”.
    Parliamoci chiaro: con il precariato non si campa.
    Nell’azienda dove lavoro, chi ha contratti da part time non riesce a sposarsi, avere casa, cercare una propria autonomia.
    Non abbiamo mai avuto in Italia, per non dire della Sicilia, una cultura del lavoro a tempo come quella degli Stati Uniti, per fare un esempio.
    E poi, per un datore di lavoro “illuminato” quanti ne troviamo che con la scusa di una futura regolarizzazione, in piena aderenza a quanto prevedono le leggi sul lavoro a tempo determinato, sfruttano i propri dipendenti?
    Non è forse vero che per trovare la propria strada, dopo anni di studio specializzato, molti sono costretti ad andare via dalla Sicilia?
    Per chi da anni ha seguito le promesse del politico di turno, non è forse giunta l’ora di una stabilità? C’è una larga fascia di trentenni, troppo vecchi per il mercato del lavoro, che oggi stagnano in queste condizioni.
    Il fenomeno è più complesso e secondo me ha cause che risalgono molto indietro nel tempo.
    Oggi, con la crisi, vediamo in piena luce i segni di questa malattia, che ha covato – e aggiungerei, è stata coltivata in mala fede – negli anni scorsi.

  18. @Fabio: Mi sembra una conclusione semplicistica, la sua, e chiaramente non era quello il senso della mia tesimonianza. Parlo solo di quello a cui assisto quotidianamente(non sono tutti così, è evidente), ma non si può avere sempre e soltanto una visione vittimistica del lavoratore. Esiste anche un’altra realtà. Guardiamo anche all’imprenditore penalizzato da un personale spesso non qualificato, svogliato, annoiato che nuoce all’immagine e, va da sè, alla redditività. Così non si va da nessuna parte.

  19. Essendo ormai prossima ai quarant’anni, e avendo ormai fatto qualsiasi cosa mi sia capitata alla voce: “lavoro”, rimango perplessa, ma non sorpresa, davanti all’affresco disegnato dal Post e dai successivi commenti. Con la mia laurea in Filosofia, conquistata con il vecchio ordinamento, ho fatto per diversi anni l’operatrice al call-center, cercando, ad ogni chiamata, di essere più gentile e disponibile, ricevendo anche qualche complimento!
    Ho somministrato questionari di gradimento ai pazienti/pasienti degli ospedali palermitani per verificare la qualità(!!!!) dei servizi offerti; ho fatto uno stage presso una agenzia assicurativa, ecc,ecc,ecc….
    L’ultima esperienza di lavoro mi ha portato ad occuparmi di apprendistato, ed è stata per me una ghiotta occasione per comprendere le aspettative di chi adesso è appena ventenne….e non riesce a guardarsi dentro!!! Chiedevo loro: “Se tu potessi scegliere, che tipo di lavoro ti piacerebbe fare?”. Volevo solo che descrivessero i loro sogni….e le risposte non arrivavano quasi mai! Ritengo che sia questa la cosa più grave: la fine di ogni utopia! I sogni sono un tentativo di superamento dei limiti, quelli propri e quelli dell’ambiente in cui si vive, e non so se l’apatia giovanile riscontrata sia legata al momento storico ed economico che stiamo vivendo. Io credo semplicemente che ci sia sempre una opportunità, ma bisogna correrle incontro….anche per questo, adesso, studio da “counselor”!

    P.S. Io sognavo di scrivere…..

  20. @La Contessa.
    Secondo me era più semplicistica la sua.
    Comunque va bene così : la vediamo da punti opposti, ma la sostanza ( spero) non cambia.
    Sul vittimismo dei lavoratori possiamo anche parlarne, ma bisognerebbe anche parlare delle lacrime di coccodrillo di alcuni imprenditori(con molti lavoratori supersfruttatie in nero) e ne conosco,mi creda,che sembrerebbe quasi che ci rimettano.
    Altrimenti rischiamo di dare una visione di parte al problema.

  21. A volte ho l’impressione che per inseguire un ideale si perdano di vista i punti di partenza. E soprattutto si rischia di essere molto accademici e poco operativi. Le teorie vanno benissimo, ma in un momento di crisi assoluta mi sembra che un po’ più di autocritica sia indispensabile. A tutti i livelli.
    Per inciso, e sempre rispetto alla mia esperienza, se un imprenditore è affiancato da persone valide, motivate e, perchè no, appassionate, non ha nessun motivo per liberarsene e farà di tutto per tenersele strette.

  22. Non credo di avere parlato di semplici teorie.
    Purtroppo, i fatti che ho citato sono reali.
    Quotidianamente sono a contatto con situazioni di precarietà, di scoraggiamento.
    Purtroppo molti imprenditori non sono come lei li dipinge, mia cara Contessa. Così come molti lavoratori, stanno con la bocca aperta in attesa che cada la manna dal cielo.
    Ripeto la situazione doveva arrivare prima o poi a un punto di non ritorno. Era solo questione di tempo.

  23. Caro Fabio, è vero, infatti ho esordito dicendo che avrei esposto un altro punto di vista, spesso trascurato o considerato troppo “di destra”. Mi trovo d’accordo su molte delle cose che sono state scritte, è una situazione difficile, difficilissima, da qualsiasi parte la si guardi.

  24. @Cristina Arcuri:
    Cara Cri,
    logico che quel “s’è creata” voleva dire “è stata costretta a crearsi”. A quale, infatti, tra i precari di ieri o ieri l’altro, non sarebbe piaciuto leggere su un foglio di carta “su segnalazione del Direttore Responsabile siamo lieti di comunicarle che l’Editore ha deciso di assumerla con l’articolo 1 del CNLG…” (a proposito, esiste ancora la formula?, o è preistoria, oramai?). Precisato ciò, è tutto il sistema della professione giornalistica che s’è incancrenito, a partire dalla selezione che ha seguito da un decennio criteri inusitati, aberranti, né bravura né merito, solo servilismo, segretariato quando non addiritura camerierato, a mezzo o a tutto servizio: è servito a qualche capetto di scarsa morale per farsi portare i caffè e a qualche giovinotto privo di talento ma ambizioso per potersi fregiare del suo nome e cognome in calce ad un articoletto. Certo. C’è chi non è stato al gioco, ha pagato e continua a pagare. Ma ormai le cose sono arrivate (sotto ogni latitudine) ad un redde rationem tale, a una sorta di Giudizio Universale, che non c’è speranza né per gli uni né per gli altri. E’ un mestiere in liquidazione, questo. O si rifonda del tutto o giù nelle sabbie mobili. Giuro, ho il cuore spezzato a scrivere ‘ste cose ma è così, pur non avendo più (e già da tempo) una visione romantica di questo mestiere che faccio da anni 32.

  25. @Totò Rizzo
    Ho molto apprezzato l’estensione della tua analisi, specie quando parli di mestiere in liquidazione e della necessità di rifondarlo.
    Bisogna uscire dall’equivoco che la deriva di molte professioni sia da attribuire all’incapacità, alla presunzione, o all’ignavia dei più deboli professionalmente e quindi “umanamente”..
    @Gery: la logica del posto fisso per molti coincide con il sogno di un’assunzione. “Sognare” un’assunzione meriterebbe un altro post.
    E’un’anomalia sognare un’assunzione.
    Brucia anni di lotte sindacali. Ma questa è un’altra storia..

  26. Da ingordo impenitente quale sono, mi candido, ovviamente, ad illustrare il post prossimo venturo di Cristina. Se tratterà del tema ora in progress un’ideuzza ce l’avrei…

  27. Caro Gianni, le sue opere mi piacciono molto, incontrano il mio gusto e mi incuriosiscono; le trovo davvero originali e stimolanti. Sono seriamente interessata a possederne almeno una. Ho già pensato a dove poterla sistemare. Pensa sia possibile parlarne prima o poi?

  28. Cara Contessa, è un onore sapere di aver suscitato in lei con le mie opere cotanto desiderio! Direi che prima o poi (non tergiverso, le assicuro: sarà un prima più che un poi) potremo parlarne. Un’occasione potrebbe essere una mia personale da qualche parte, ma dubito che le gallerie cittadine abbiano fatto venir meno la loro indifferenza nei riguardi del mio lavoro. E anch’io, lo ammetto, non faccio nulla per rendermi più simpatico agli occhi dei galleristi palermitani. Ma sono sicuro che qualcosa accadrà. Già domani saprò se uno spazio cittadino non proprio deputato alle esposizioni d’arte vorrà dar seguito ad un proprio proposito: una mia piccola mostra. Intanto ringrazio Gery per avermi offerto molto spazio nel suo accogliente blog: che in concreto da qualche tempo è la mia galleria di riferimento! La qual cosa naturalmente mi crea un certo imbarazzo, se considera che c’è una parte di me molto timida e molto pudica.

  29. Per fortuna non conosco la disoccupazione. Ho lavorato prima e dopo la laurea ed ho avuto sempre il posto fisso. Da piccola ho lavorato anche nelle parruchierie. Incapace di fare lo shampoo, mi sono perfezionata nelle tinture: 400 lire “a testa”.
    Ho sempre e solo voluto uno stipendio per non pesare sulla mia famiglia e questo mi ha portato a lavorare le classiche 14 ore al giorno. Ho fatto una gavetta massacrante.Mi sono confrontata con capi tirchi e stronzi (alla tirchieria non c’è rimedio), ho subito grandi umiliazioni, ho lavorato ore ed ore senza un centesimo di straordinario. Sono stata superata da colleghi stupidi ma grandissimi paraculo ma non mi sono mai arresa. Quando si è giovani bisogna passare il tempo ad imparare e a investire anche l’anima in quello che si fa.
    Adesso i tempi sono diversi è vero. E’ vero anche che per molti basta scrivere un articolo per sentirsi giornalisti affermati. Ma chiunque nella vita abbia incontrato un “grande” sa riconoscere la grandezza nell’umiltà. Ci sono giovani, è vero, che non vogliono investire un briciolo del loro tempo in un progetto. Ma ce ne sono altri, che nei progetti ci credono e tanto ma non hanno la possibilità di dimostrare quello che sanno fare. E’ brutto dirlo, ma sono contenta di aver passato i 40, perchè essere giovani laureati oggi non è proprio una bella cosa.

  30. Caro Gianni, glielo auguro e lo spero. Non sono un’esperta, ma sento di poter affermare che i suoi lavori si collocano perfettamente, arricchendolo, nello scenario artistico contemporaneo. Più di quanto, forse, lei stesso creda. Attendo sviluppi. Grazie!

  31. Cara Cinzia, sottoscrivo in pieno e, se non le dispiace, farò tesoro delle parole di sua nonna. E’ un motto che mi piace e sento molto.

  32. Con molto piacere cara contessa. Del resto nella vita bisogna andare sempre avanti. Sempre. Finché c è la salute bisogna mangiarselo questo mondo.

  33. Mi fate diventare rosso come un pomodoro, anzi viola come una melanzana (anche se in realtà correttamente si dice “melenzana”).

  34. La mostra di Gianni potrebbe coincidere con una riunione in carne e ossa delle scellerate anime di questo blog… Dai, Gianni, “mostriamo” presto!
    @cinzia: io, ancor più dei laureati, compatisco i laureati “figli di nessuno” che vorrebbero fare ricerca o comunque carriera universitaria. L’università, almeno per come è messa da noi, è veramente la tomba delle illusioni, mentre dovrebbe essere la culla dei talenti. Doppiamente umiliante, doppiamente frustrante. Ne scrissi a suo tempo, ma la ferita brucia e mi costringe a tornarci su.
    Sul giornalismo, pur avendo un’esperienza di redazione limitata alle collaborazioni esterne, sono d’accordo con Abbattiamo quando parla di cane che si morde la coda. Ok: professionalità e indipendenza zero dal momento che in sostituzione di giornalisti pensanti si può in qualsiasi momento attingere a un serbatoio di precari che abbassano la testa. Ma allo stesso tempo: i precari hanno scelta? Che cosa li trattiene dall’accettare certe condizioni se non la mancanza di un’alternativa? Certo, esiste la soluzione Gery, onorevolissima: tirare fuori i cosiddetti, rischiare e contare su se stessi. Però ci vogliono una buona dose di carattere, un minimo di solidità professionale acquisita e un pizzico di fortuna che non guasta mai. E anche qualche pelo in più sullo stomaco, e lì è una questione di età. Io, guardando a me stesso ventenne, ho il ricordo di un bambino disorientato. Credevo a tutti, sognavo, mi fidavo. Magari, di base, la vita mi aveva già dato un bel po’ di calci in c… e forse questo ha fatto la differenza. E’ possibile che, con tutta la comprensione di questo mondo, a molti ventenni manchi una dose di calci in c… che fa crescere. Ma questa non è tutta colpa loro.

  35. @Cacciatorino Secondo me la differenza la fa sempre l’età e l’educazione. Se consideri, che, ad esempio il grande fratello va in onda da 10 anni, significa che il modello con cui una ventenne oggi, dotata di genitori poco accorti è cresciuta, è basato sulla Paola di turno. Se poi questa ragazza è dotata di sedere inteso non come metafora, due seni adeguati e un buon sorriso, di andare a studiare all’Università per poi guadagnare due lire non ci pensa neanche. Sarà il provino la sua meta. Il modello su cui il Paese si è sviluppato è quello che ci propinano in televisione. E’ andare a raccontare tutti i tuoi “fatti” perchè ti mancano le basi solide. E quindi devi apparire. In ogni ambiente di lavoro chi appare non ha nulla di concreto da offrire.
    Di contro, è chiaro che ci sono ragazzi motivati, seri e immensamente preparati che il sedere, stavolta come metafora, lo desiderano. La differenza oggi, secondo me, la fa la possibilità: prima se eri bravo potevi dimostrarlo, ti davano la possibilità. Oggi non esiste neanche questo. Da qui lo scoramento e tutto ciò che ne consegue. Però, siccome sono ottimista fino al midollo osseo, credo nel sacro valore dell’impegno. E credo anche che questo periodo così nero passerà.

  36. @Contessa, Cinzia, Giacomo, e tutti (proprio tutti) gli amici del blog di Gery: La mia piccola personale cui facevo cenno ieri, si farà a quanto pare, ma non nei tempi brevissimi che “questo luogo non deputato agli eventi d’arte” aveva prospettato e sperato. Slitta (per fortuna, non sine die) e credo che tra la fine di aprile e i primi di maggio vi farò sapere. Incrocio le dita, tocco ferro, compio gesti volgari e guardo l’oroscopo da domani in poi, tutti i giorni!
    (Contessa, pensa di poter pazientare un pochino? Spero di sì).

  37. Che bello, caro Gianni, sono contenta! Questa attesa non può che stimolare ulteriormente il mio interesse. Non vedo l’ora, davvero! In bocca al lupo…

  38. Precariato o non precariato credo che il problema e’ anche quello di amare il propio lavoro.Leggendo “il disagio della civita'” di S.FREUD mi ha colpito un passaggio che ho ritenuto interessante:La grande maggioranza delle persone lavora soltanto per necessita’,e di questa naturale avversione umana al lavoro nascono i piu’ difficil problemi sociali

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