Sono in un loop dal quale non so quando potrò uscire. Palermo proviene da una fase di stallo molto grave, e senza precedenti, sulle nomine del Teatro Massimo Palermo e del Teatro Biondo Palermo, importanti realtà artistiche italiane (con gli adeguati distinguo, il Teatro Massimo è una realtà internazionale che spesso Palermo mostra di non meritare). Il parterre del tifo militante si muove perlopiù a sensazione. Nel mio minuscolo qualcosa so e però, pur nell’esercizio del mio mestiere di giornalista, non posso dire: per tenere lontano ogni possibile conflitto di interessi e per un minimo di buona creanza che la maturità impone. E siamo alla prima metà del loop: chi sa non può parlare perché è giusto che siccome sa in virtù di un mestiere, non possa dire quel che sa in virtù dello stesso mestiere. Risultato: ovunque parla solo il parterre con quel che ne consegue.
Piccola parentesi. Sono fuori da questo gioco dall’inizio dell’anno e ho scelto di farmi da parte proprio perché a una nazionale della cultura, come dovrebbero essere i nostri teatri, non servono tifosi, ma bravi allenatori e giocatori forti. Sono rientrato negli spogliatoi, ho guardato la partita soffrendo in silenzio. Chiusa la parentesi.
La seconda metà del loop è più complicata e riguarda il rapporto tra l’audience e la sostanza delle cose. Se si chiedono, giustamente, nomine di merito che garantiscano l’indipendenza della cultura dalla politica (un miraggio, giacché l’unica cultura indipendente è quella che celebriamo a casa nostra, o nel nostro teatrino privato) non si può ipotizzare che un direttore o un sovrintendente vengano approvati in pratica dagli artisti, dal sindacato variegato, e da tutti noi che lavoriamo nei teatri. Perché sarebbe un’altra violazione dell’indipendenza: c’è sempre qualcuno a nord di noi, fin quando esiste la geografia delle regole, che piacciano o no (io stesso ne sono stato vittima, ma magari ve la racconto un’altra volta).
Sono sempre stato contrario alle celebrazioni coram populo. Mi sono sentito a disagio in contesti di finta democrazia in cui, quando si deve prendere una decisione, più ampio è il consesso più giusta sarà la strada decisa. Le imprese più fallimentari alle quali ho assistito sono quelle ultra concordate, spalmate su teste spesso inconsapevoli pur di fare numero.
Perché? La risposta che ho io è quella che viene dalla mia piccola esperienza. Perché l’innovazione si fa senza facili consensi, costruendo sulle barricate nemiche, sfidando la consuetudine delle maggioranze. Si fa in pochi, quelli giusti, quelli che hanno coraggio: non c’è altro modo di dirlo, si vince o si perde. L’innovazione non piace a tutti, ontologicamente (e qui Giuli godrebbe;) ).
Servono direttori di teatri forti e preparati. Non importa se li appoggia il Sopra o il Sottosopra. Del resto la cronaca ci ha consegnato infiniti casi di trasversalismo e cambi di casacca in corsa. Servono specialisti ma non troppo, razionali ma non troppo, visionari ma non troppo, sganciati sia dalle segreterie di partito che dai salotti (che in una città come Palermo sono ben più mefitici). Servono coagulatori di idee, indipendenti perché se uno ha un’idea e la baratta con una notte serena, non ha un’idea ma un blister di Xanax. Per rimboccarsi le maniche servono le braccia. Non importa se la camicia è intonsa o meno perché, come diceva il sulfureo Andreotti, la camicia è come la coscienza, per mantenerla pulita basta non usarla.
Da qui si deve ricominciare. E taccio, al momento, perché pure dagli spogliatoi è giunto il momento di sloggiare.
P.S.
Nella scrittura di questo post nessun precario è stato maltrattato, del resto l’autore è un discreto rappresentante della categoria.
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