Il teatro nascosto alla città

Un estratto dall’articolo di oggi su la Repubblica.

Attenti come siamo a misurare col metro della delusione lo sviluppo di una città come Palermo, non dobbiamo sottovalutare l’importanza delle nuove nomine al Teatro Biondo, che sono un’occasione preziosa per accorgersi che la città ha ancora un teatro stabile e che, soprattutto, ogni tanto si può cambiare metro.
Il nuovo direttore Roberto Alajmo e la nuova artista residente Emma Dante non possono certamente fare miracoli, ma possono anzi devono rompere un incantesimo. Quello che imprigiona il Biondo in una sorta di buco spazio-temporale, dove tutto accade e nulla si trasforma, dove quel che c’è è invisibile e quel che si vede è nulla.
Il Biondo degli ultimi dieci anni è l’immagine di una Palermo che voleva cambiare pelle e non è riuscita nemmeno a cambiarsi d’abito. E’ stato un crogiolo di vecchie idee e scarsi mezzi, perché i risultati deludenti – va detto – non sono solo stati causati da errori umani.
Le nuove nomine sono un buon segno in un teatro da troppo tempo in mano ai maratoneti della poltrona, ossimoro che è il sintomo peggiore del contagio operato dalla politica nei confronti dell’arte. Alajmo e Dante sono onesti palermitani che provano a risollevare le sorti di un teatro, sapendo – si spera – che la missione più difficile è identificarle, quelle sorti, data l’impalpabilità del Biondo nel tessuto della città.
Chi segue le vicende politiche o la minima cronaca bianca di Palermo è arrendevolmente conscio del fatto che il teatro stabile non è incluso nel perimetro delle “cose che interessano a qualcuno”. Ad eccezione di una lettera di dimissioni di Pietro Carriglio e della protesta dei dipendenti senza stipendio che qualche mese fa sono saliti sul tetto dell’edificio di via Roma, il resto è silenzio. E non da adesso, da questo tempo infame di crisi in cui si è obbligati a provare imbarazzo nello scrivere e pronunciare la parola “cultura” perché c’è prima molto altro a cui pensare.
(…)

Dieci domande posson bastare

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Mettetevi nei panni del direttore di un giornale.
Se una vostra iniziativa giornalistica diventerà una moda avrete da gioire perché la trovata ha avuto successo. Al tempo stesso avrete da deprimervi perché la vostra idea è stata degradata a chiacchiericcio, tiritera, ispirerà molte brutte imitazioni.
Accade in questo momento, e da qualche mese, con le dieci domande di Repubblica a Silvio Berlusconi.
Sui giornali e sul web c’è un fiorire di domande, anzi di dieci domande, a chiunque. Anche a chi con mezza risposta potrebbe già raccontare la propria vita, oppure a chi con dieci risposte avrebbe fatto soltanto un passo verso le attenuanti generiche. Da Marrazzo a Franceschini, dall’allenatore del Rimini Calcio a Beppe Grillo, da Fini a Emma Dante, da Augusto Minzolini a Massimo D’Alema, da Dino Boffo a Tom Wolfe, dal sindaco di Bergamo a Giancarlo Abete. In mezzo – è vero – ci sono spunti di satira e tipiche provocazioni internettiane (da salvaguardare), ma a ben leggere c’è anche una certa dose di banalità.
La mia domanda sulle dieci domande è questa: la vogliamo finire di imbastire domande come se fossero comandamenti e torniamo a chiedere quello che ci pare senza che ci sia un format da rispettare?

P.S.
Anche perché poi finisce che se siete il famoso direttore del famoso giornale poi clonate voi stessi e non è una mossa strategicamente furba.