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I deputati dell’Assemblea regionale siciliana hanno aumentato il loro stipendio di quasi 11 mila euro lordi all’anno, circa 890 euro al mese. Un adeguamento legato all’adeguamento al costo della vita secondo l’indice Istat.
Il mio compenso, e quello della maggior parte dei precari (io precario sono), dei lavoratori a partita iva, dei liberi professionisti che denunciano tutto quel che guadagnano, è fermo da secoli. Anzi, per via degli slalom della vita, oggi prendo in proporzione meno di vent’anni fa. Ma tiro avanti con serenità non perché sia ricco o campi d’aria, ma perché questo mi offre il mercato: e io sono uno fortunato, che fa un lavoro creativo e che ringrazia Dio per ogni giorno che manda in terra.

Breve panoramica per capire di cosa stiamo parlando.
Secondo i dati Ocse 2022, tra il 1991 e il 2021 il livello medio degli stipendi in Italia è cresciuto dello 0,36 per cento, mentre nello stesso periodo in Germania e in Francia l’aumento è stato pari al 33 per cento. Alcuni paesi dell’Unione europea hanno registrato aumenti anche maggiori: gli stipendi in svedesi sono cresciuti del 72 per cento e quelli irlandesi dell’ 82 per cento.
A ciò va aggiunto l’ulteriore differenza, all’interno del nostro Paese, tra chi lavora al Nord e chi lavora al Sud, nonostante qui entrino in gioco altri parametri come il costo della vita.

Questioni economiche e sociali a parte, credo che in Italia ci sia un problema – almeno per quel che mi è capitato di osservare intorno a me – nel riconoscimento delle professionalità. Si continua a pensare che se ci sono due persone che hanno costi differenti, a parità di opera svolta, sia opportuno scegliere quella che costa meno, a prescindere da abilità, competenza, affidabilità.
In questo scenario si celebrano volgari cerimonie di indignazione per lo stipendio del sovrintendente di un grande Teatro d’opera – uno che fa un lavoro che si vede e i cui risultati si toccano con mano – e si passa tranquillamente sopra gli aumenti a raffica dei deputati regionali siciliani, il cui lavoro e i cui risultati sul campo sono tragicamente evidenti.   

Due euro a litro

Con la benzina a due euro al litro una domanda viene spontanea.
Come mai l’industria automobilistica non ha diffuso già da anni veicoli con motore elettrico?
Siamo arrivati comodamente su Marte, abbiamo una tecnologia che ci fa muovere senza traumi in mondi virtuali, la ricerca di fonti energetiche alternative è costante. Eppure, a parte qualche auto “ibrida” a costi non proprio accessibili, il modello elettrico non decolla.
Perché?
Le motivazioni ufficiali sono di carattere tecnico. Da un lato la mancanza di punti di rifornimento lungo le strade nei quali attaccare la spina, dall’altro i tempi di ricarica (una Chevrolet Volt richiede 10 ore per garantire il massimo delle sue potenzialità da 120 volt, una Nissan Leaf ne vuole circa 20). E poi la durata delle batterie e i dubbi ecologici sull’inquinamento delle centrali elettriche che dovrebbero produrre più energia per soddisfare le esigenze degli automobilisti.
In realtà si intuisce una rigidità dell’industria tradizionale nei confronti di questo genere di innovazione: l’auto a benzina (o a gasolio) continua a essere il mezzo preferito dalle multinazionali perché garantisce introiti immensi con un prodotto antico come il petrolio.
Non mi meraviglierei se ci fossero importanti brevetti acquistati proprio per non essere convertiti in progetti. Frenare lo sviluppo sostenibile è da criminali.