Il fumo di Amsterdam e quello di Palermo

Un estratto dall’articolo di oggi su la Repubblica.

Questa storia tutta palermitana inizia ad Amsterdam. E’ una storia di fumo, ma non nel senso che d’istinto vi porta con la mente a un coffe shop: qui non si parla di marijuana, ma di inconsistenza.
Domenica scorsa io e alcuni amici siamo stati nella città olandese in occasione della maratona. Quasi 42.600 partecipanti, un percorso incantevole, musica a ogni incrocio di strada, pubblico festante, cori di incitamento anche per gli ultimi, organizzazione perfetta con felice dispendio di tecnologia. Insomma tutto quel che serve per acuire il senso di disagio del rientro a casa. Perché a ogni bella sorpresa in terra olandese (i risultati in tempo reale sul cellulare, la puntualità dei mezzi pubblici, l’assistenza impeccabile ai runner) inevitabilmente corrispondeva un doloroso rimando alla maratona di Palermo. Continua a leggere Il fumo di Amsterdam e quello di Palermo

Maratoneti

foto

La maratona è democratica. In strada con scarpette e pantaloncini siamo davvero tutti uguali in termini di diritti. Quanto ai risultati, vi sottopongo un quiz: presi questi due maratoneti, da sinistra Giacinto e Ciccio, secondo voi chi dei due è il più forte?

Drogati di corsa

Ieri su diPalermo, Giacinto Pipitone ha raccontato la storia di un tale che, d’un tratto, decide di mettere da parte vizi e tran tran e comincia a correre. Non è Forrest Gump, lui corre per arrivare. E deve arrivare lontano. A New York, alla grande maratona.
Quella storia è la sua, di Giacinto, ma è anche quella di migliaia di impiegati, professionisti, pensionati che hanno deciso di rimescolare le carte e tentare la grande giocata.
Corro da decenni, anche se non più con le prestazioni (modeste, ma biologicamente esaltanti) di un tempo. La schiavitù da endorfine la conosco bene: ogni giornata di maltempo è un balcone senza ringhiere sul vuoto del malumore; al contrario, ogni chilometro in più macinato (magari su un paio di nuove Asics Cumulus) è una felice sofferenza.
Chi non ha mai sforato il limite dei 15-20 chilometri non conoscerà mai l’ebbrezza della morfina naturale che, quando le gambe sono ormai ferme, irrora muscoli e cervello dando un motivo di felicità a ciò che per molti non ha un briciolo di senso. Oltre i 30 chilometri c’è qualcosa di cui si occupa la letteratura (vedi Murakami Haruki) quindi non è il caso di discuterne qui.
Correre per la stragrande parte dell’umanità meccanizzata è una tortura, per pochi illusi che si agitano in calzoncini corti dodici mesi all’anno è una necessità.
Gli scienziati raccontano del lavorio di articolazioni e della meravigliosa economia energetica dei mitocondri. I runners si limitano a scandire le singole “monete” di ATP spese per far fronte allo sforzo di dover mettere un piede davanti all’altro, chilometro dopo chilometro.
I Paesi più civili della Terra sanno che dietro alla sofferenza di un maratoneta c’è un rito antico come la macchina di carne e ossa che governa il mondo: per questo le manifestazioni dedicate a questo sport vedono, tra il pubblico, una partecipazione intensa e commovente. Mio fratello, reduce dalla maratona di Amsterdam di domenica scorsa, mi racconta di famiglie di campagnoli che lungo il percorso hanno messo su banchetti estemporanei con biscotti e altri generi alimentari, tutti a disposizione di sconosciuti che passavano, trangugiavano e fuggivano via, come fuorilegge inseguiti da una sceriffo invisibile.
Dalle nostre parti invece una maratona è ancora vista come un intralcio al traffico. Come una noia che appesta le vite dei cittadini automuniti.
Però, vi assicuro, non maleducazione. E’ brutta, intensa ignoranza.