Ancora sui cinesi

Ho visto ieri su Ballarò una presunta responsabile del commercio cinese in Italia, o comunque una rappresentante della comunità, affermare che quando i suoi connazionali arrivano nel nostro Paese per aprire un’attività commerciale hanno bisogno di tempo per capire le nostre regole (vedi leggi). Non ho nulla contro i cinesi e contro gli immigrati in genere. Anzi, nel nome di una società multietnica, ritengo che la ricchezza di una società stia nel suo assortimento razziale. Mi sono domandato però cosa mi potrebbe accadere se decidessi di aprire un’impresa in Cina chiedendo nel contempo un periodo di riflessione per capire quali sono le norme da rispettare. Risposta: sarei in galera. E le galere di un Paese che commina ancora pene capitali e che addebita ai parenti del morto il costo del proiettile non devono essere troppo confortevoli. Abbiamo ancora molto da imparare sulle regole del mercato che sono crudeli e fondamentali come il bilancio di una nazione e come il nostro bilancio familiare. Abbiamo ancora molto da imparare per distinguere un’immigrazione che arricchisce (per cultura, economia, religione, spirito di sacrificio) da un’altra che porta solo marchi contraffatti e rifiuto di ogni principio di integrazione.
Non voglio sembrare un becero fascista, ma resto aggrappato a principi di uguaglianza e di legalità che non hanno colore né razza. Se la legge è uguale per tutti non è giusto dire cose uguali per tutti?

La nostra strage

Ancora una strage in un campus americano, ancora giovani tra le vittime, ancora armi protagoniste, ancora sgomento, ancora una volta tutti noi a scrivere ancora una volta.
C’è un bel documentario del celebrato Michael Moore che prende spunto dalla strage alla Columbine School di qualche anno fa: allora i morti furono dodici, ieri sono stati trentatre (dato provvisorio per l’alto numero di feriti).
Abbiamo sempre bisogno di aggrapparci a qualche paragone quando ci troviamo davanti a scenari così apocalittici. Cadaveri in cifre, film al botteghino, politici e politiche permissive o no, gioventù bruciacchiate, i valori di un tempo.
E’ puro egoismo. Questa smania di dover avvolgere un fatto con carta vecchia o di altri per vedere se il pacco ci sta dentro oppure no è un modo di pensare ad altro che non sia nessun altro, è un espediente per pensare solo a noi.
L’evidenza che la follia umana è di tutti e che la testa fuorviata di quel giovanissimo killer potrebbe essere la nostra o quella di nostro figlio ci terrorizza a tal punto da dover arraffare uno, dieci, mille simboli da incollare sul petto dell’assassino: la lobby delle armi, la politica di Bush, la questione asiatica, l’incomunicabilità, i modelli sullo schermo (della tv, del cinema, del computer).
No.
La mattanza di Blacksburg è un orrore dei nostri tempi. Finiamola di aggrapparci alla geografia, gli Stati Uniti sono vicini quando ci conviene e lontani quando non ci conviene. Finiamola di perseguitare i miti, i nostri trend culturali ed estetici sono condizionati da ciò che si respira negli Stati Uniti salvo erigerci a culla della civiltà quando uno, oltreoceano, fa una cazzata. Finiamola di considerare migliori le idee più balzane, come molte ne vengono fuori negli Stati Uniti, e di non mettere nel conto gli effetti collaterali. Siamo un mondo che vive sotto lo stesso tetto, ormai. Se un grassone spara un peto in una mensa aziendale di Manhattan, la puzza arriva nel nostro tinello.

Satira e buon senso

Un hacker è riuscito a entrare nel sito di Forza Italia di Massa e ha inserito un fotomontaggio in cui Silvio Berlusconi è al posto di Giovanni Brusca, nella celebre foto che cristallizza l’arresto del criminale mafioso. E’ una bravata se vogliamo anche divertente, di quelle che fanno il giro del web in pochi clic. Ciò che stona sono gli insulti che lo stesso hacker ha lasciato dietro di sé. Con quelle offese ha cancellato l’istintiva simpatia che un “simpatico mascalzone” può ispirare seppur in un surrogato di satira.
Siamo sempre ad un bivio: ciò che distingue una strada dall’altra non è solo la direzione che prende, ma anche il buon senso con cui la si percorre.

Perdere chili… e soldi

Le vie del web sono infinite. Così capita che cercando qualcosa tramite un motore di ricerca ci si imbatta in qualcos’altro. E’ in questo modo assolutamente casuale che sono venuto a conoscenza di un metodo, anzi come recita il sito un’autoterapia, chiamato Zerodiet. Dal nome si capisce subito che si tratta di un rimedio contro i chili di troppo. In pratica, apprendo dall’home page, che senza diete né altro tipo di intervento si possono perdere da 3,6 a 9,8 chili al mese. Come? Applicando due magneti all’orecchio. Non ho la competenza per confutare una sola parola tra quelle scritte sul sito. Da ignorante (e un po’ scettico) scorro la pagina alla ricerca di una testimonianza attendibile. Ne trovo due: il prodotto è “consigliato dall’Istituto Superiore di Igiene Alimentare” e “segnalato da Salus, Medicina in rete”.
Istituto Superiore…? Qualcosa di importante, mi dico. Cerco, sempre su internet. Ma l’unica cosa che trovo con la medesima sigla è l’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche. Faccio altre ricerche e mi accorgo che altri blogger avevano annusato un odore non troppo gradevole. Per finire clicco sul link della home page di Zerodiet dove si fa riferimento a Salus. E scopro che sì le calamite in questione (perché di calamite si tratta) sono segnalate dal sito di medicina in rete, ma che la segnalazione altro non è che uno spazio pubblicitario a cura della stessa Zerodiet.
In certi casi la Rete serve a non cadere nella rete.

Gli altri no

Il nuovo demonio italiano, ancora abbronzato nonostante il sole a scacchi, ci fa sapere che in carcere ha imparato a vivere. Fabrizio Corona, dipinto dai magistrati come il fotografo ricattatore dei vip, incarna in questo momento tutto il peggio – e quindi tutto ciò di cui ci piace sentir parlare – della vita italiana. Ovviamente si tratta di un ruolo eccessivo e ingiusto dettato da esigenze di cronaca: i mezzi di comunicazione hanno sempre necessità di creare nuovi fenomeni, che siano criminali, sportivi, sociali o culturali.
Corona però avrebbe un’occasione preziosa per cercar di far valere le sue ragioni (fragili?) e contemporaneamente mettere in mora (nessun doppio senso, giuro) il sistema mediatico che lo sta demolendo cellula per cellula: dovrebbe mostrarsi umano, spogliarsi di una vacua teatralità e non sognarsi nemmeno di travestirsi da maitre à penser. Invece dal penitenziario di Potenza fa sapere che le sue memorie diventeranno probabilmente un libro e dichiara che “il carcere è una prova che quasi quasi dovrebbero fare tutti”. Sul progetto editoriale non mi pronuncio: ci sono editori che pagherebbero soldoni per una pagina di astine vergata da un personaggio così in vista, al momento.
Sull’esperienza della detenzione ho qualcosa da aggiungere al verbo coroniano: il carcere è un esperienza che dovrebbero fare tutti i delinquenti, tutti quelli che se ne infischiano delle leggi, tutti quelli che lucrano alle spalle dei poveracci, tutti i violenti e gli imbroglioni soddisfatti.
Gli altri no.

Il caso Sircana ha rotto

Come tutte le fissazioni stagionali dei media, il caso Sircana ha rotto le scatole. Osservate la singolare parabola degli eventi: all’inizio della vicenda Vallettopoli nessuno parlava di queste foto compromettenti; poi un paio di cronisti del Giornale hanno percepito la puzza di una notiziaccia; contemporaneamente la notizia girava negli ambienti parlamentari e nei postriboli giornalistici; seguivano smentite politiche e dell’interessato; le foto non ci sono; cazzate, le foto ci sono; le foto ci sono ma non si pubblicano; Sircana dice che non gliene frega niente e che si possono pubblicare; le foto vengono pubblicate; i guru del giornalismo tranquillizzano che “in fondo non c’è nulla di scandaloso”; gli stessi guru riprendono a imbastire trasmissioni televisive e speciali giornalistici sull’argomento; la sfera privata non si tocca, dice il garante; nessun provvedimento disciplinare risulta intrapreso ad oggi; si ricomincia a parlare di queste foto dicendo che bisogna finirla; se ne parla perché non è finita.
Non entro nel merito degli scatti (in uno si vede l’auto del portavoce del governo Prodi accostata al marciapiede sul quale un transessuale espone la propria merce), ma mi preme dire una cosa sul metodo adottato dal paparazzo: pedinare una persona non c’entra nulla con la libertà di stampa.

Palermo sempre più cool

I simboli contano, soprattutto se si vive nella città più cool d’Italia. Quello che vedete sopra è un pregiato esempio di pubblica cartellonistica stradale a Palermo. Poco conta il dettaglio (un’intera borgata sconvolta da irrinunciabili lavori per la rete fognaria), molto conta invece la qualità del rimedio a un disagio. Se un disgraziato, da tre settimane a questa parte, vuole tornare a Palermo da Mondello si trova in un dedalo di budelli, controsensi, trincee e indicazioni su cartone scritte a mano con una grafia incerta. Eppure la cartellonistica è uno dei punti forti dell’amministrazione orchestrata dal sindaco Diego Cammarata. Basta guardarsi intorno ed è un fiorire dei famosi manifesti (vedi foto piccola) che celebrano la presunta svolta di questa città nei titoli di alcuni giornali. Probabilmente per avere una segnaletica stradale come si deve bisognerà aspettare che qualche quotidiano stampi a tutta pagina: “Per Palermo sempre dritto”.

Con la palla al piede

Ieri strillavano i giornali: l’Inter eliminata perde la testa. Il riferimento è alla partita col Valencia per la Champions e alla rissa finale.
Fin qui tutto male. Ma c’è di peggio. Con una dichiarazione surreale il presidente Moratti rasserena: “Non prenderemo provvedimenti contro i giocatori”. Malissimo.
Non mi interessano la dinamica della scazzottata, il rimpallo di accuse da asilo nido (“Ha iniziato lui!”, “No lui!”), la moviola e l’indagine della Uefa. Ho urgente bisogno che qualcuno ricordi a questi miliardari mutandati che sono pagati per dare il miglior spettacolo possibile. Con e senza palla tra i piedi. Dopo che gli stadi sono diventati quasi più a rischio delle caserme irakene ci vorrebbe un giudice vero (con toga e codice penale alla mano) per stangare i calciatori che violano le regole del vivere civile. Se prendo a pugni una persona in mezzo alla strada, nel migliore dei casi finisco in commissariato. Per i giocatori c’è un’altra giustizia, manco fossero coperti da immunità parlamentare. Quanto a Moratti non c’è che da attendere che rientri sul pianeta Terra.

Letto, approvato e sottoscritto

Il balzello dei costi aggiuntivi per le ricariche telefoniche dovrebbe essere spazzato via dal decreto Bersani. In realtà sembra che alcune compagnie telefoniche si siano mosse, aumma aumma, per far rientrare in cassa questi soldi tramite qualche trucco. Tra clausole di contratto in corpo 0,1 e vincoli cartacei che sembrano d’acciaio i signori delle telecomunicazioni si mostrano alquanto antipatici. Antipatici, proprio così. Questi profeti della telefonoconomy occupano, nella mia personalissima hit parade della repellenza, il secondo posto dopo gli assicuratori e precedono i responsabili di centri di assistenza e riparazione di roba elettronica. Se ci fate caso è tutta gente che manovra soldi e responsabilità non controllabili. C’è sempre un cavillo o qualcosa che non sappiamo tra noi e loro. Non arriva mai la benedetta occasione nella quale riusciamo ad avere ragione. Provate a chiedere conto del servizio che vi hanno erogato: tra risposte stizzite, dedali di call center o invisibili norme “lette approvate e sottoscritte” vi manderanno a fare in culo. E voi ci dovrete andare.

Opposizione contro se stessi

Scusate, parliamo ancora di politica e – rinvigorisco le scuse – di politica italiana. Prodi ha dettato le sue dodici condizioni per riprovare a governare il Paese. Sono un politologo da Bar Sport, però sono un elettore. Chi vota, in una scuola e non ancora in una caserma per fortuna, ha i suoi privilegi. Prendiamoceli allora questi privilegi. Abbiamo assistito allo spettacolo vergognoso di una sinistra che non riesce a liberarsi da una componente massimalista che ha partorito troppe serpi nel momento di tradurre in fatti una concezione politica. Ora da elettore incazzato non voglio altro che i programmi per i quali ho votato vengano messi in atto senza che il primo senatore ballerino di turno (eletto inconsapevolmente anche da me) si sogni di rompere le scatole. Non ho nulla contro le manifestazioni di piazza, anzi. Ma quando la piazza prende il sopravvento sul Parlamento mi preoccupo. Soprattutto se il menu contro cui ci si ribella è bell’e scritto da tempo immemore. Non voglio un governo di sinistra a tutti i costi e mi dà un certo senso di nausea la ricerca di alleati nella parte avversa per far quadrare i conti. Se si può realizzare un programma di governo che preveda tutte quelle cose per cui non ho avuto esitazione nella mia cabina elettorale cartonata, bene così. Altrimenti via, tutti a casa a cercare un nuovo lavoro. Probabilmente c’è chi è nato per fare opposizione. Anche contro se stesso.