Ancora una strage in un campus americano, ancora giovani tra le vittime, ancora armi protagoniste, ancora sgomento, ancora una volta tutti noi a scrivere ancora una volta.
C’è un bel documentario del celebrato Michael Moore che prende spunto dalla strage alla Columbine School di qualche anno fa: allora i morti furono dodici, ieri sono stati trentatre (dato provvisorio per l’alto numero di feriti).
Abbiamo sempre bisogno di aggrapparci a qualche paragone quando ci troviamo davanti a scenari così apocalittici. Cadaveri in cifre, film al botteghino, politici e politiche permissive o no, gioventù bruciacchiate, i valori di un tempo.
E’ puro egoismo. Questa smania di dover avvolgere un fatto con carta vecchia o di altri per vedere se il pacco ci sta dentro oppure no è un modo di pensare ad altro che non sia nessun altro, è un espediente per pensare solo a noi.
L’evidenza che la follia umana è di tutti e che la testa fuorviata di quel giovanissimo killer potrebbe essere la nostra o quella di nostro figlio ci terrorizza a tal punto da dover arraffare uno, dieci, mille simboli da incollare sul petto dell’assassino: la lobby delle armi, la politica di Bush, la questione asiatica, l’incomunicabilità, i modelli sullo schermo (della tv, del cinema, del computer).
No.
La mattanza di Blacksburg è un orrore dei nostri tempi. Finiamola di aggrapparci alla geografia, gli Stati Uniti sono vicini quando ci conviene e lontani quando non ci conviene. Finiamola di perseguitare i miti, i nostri trend culturali ed estetici sono condizionati da ciò che si respira negli Stati Uniti salvo erigerci a culla della civiltà quando uno, oltreoceano, fa una cazzata. Finiamola di considerare migliori le idee più balzane, come molte ne vengono fuori negli Stati Uniti, e di non mettere nel conto gli effetti collaterali. Siamo un mondo che vive sotto lo stesso tetto, ormai. Se un grassone spara un peto in una mensa aziendale di Manhattan, la puzza arriva nel nostro tinello.