Ho visto ieri su Ballarò una presunta responsabile del commercio cinese in Italia, o comunque una rappresentante della comunità, affermare che quando i suoi connazionali arrivano nel nostro Paese per aprire un’attività commerciale hanno bisogno di tempo per capire le nostre regole (vedi leggi). Non ho nulla contro i cinesi e contro gli immigrati in genere. Anzi, nel nome di una società multietnica, ritengo che la ricchezza di una società stia nel suo assortimento razziale. Mi sono domandato però cosa mi potrebbe accadere se decidessi di aprire un’impresa in Cina chiedendo nel contempo un periodo di riflessione per capire quali sono le norme da rispettare. Risposta: sarei in galera. E le galere di un Paese che commina ancora pene capitali e che addebita ai parenti del morto il costo del proiettile non devono essere troppo confortevoli. Abbiamo ancora molto da imparare sulle regole del mercato che sono crudeli e fondamentali come il bilancio di una nazione e come il nostro bilancio familiare. Abbiamo ancora molto da imparare per distinguere un’immigrazione che arricchisce (per cultura, economia, religione, spirito di sacrificio) da un’altra che porta solo marchi contraffatti e rifiuto di ogni principio di integrazione.
Non voglio sembrare un becero fascista, ma resto aggrappato a principi di uguaglianza e di legalità che non hanno colore né razza. Se la legge è uguale per tutti non è giusto dire cose uguali per tutti?