Panze piene e bocche vuote

Dopo abbuffate e code non si parla che dei postumi di abbuffate e code. Provate a discutere con amici e colleghi oggi, cercatene almeno uno che non si regga la panza. Neanche il solito diversivo della tv (leggasi concertone) ha funzionato: l’idea è ormai logora e la scaletta musicale sempre meno entusiasmante.
Eppure c’è qualcosa che dovremmo tenere a mente di questo Primo maggio: il fatto che è stato dedicato ai morti sul lavoro, a tutte quelle persone che si sono immolate per uno stipendio da fame. C’è in questo Paese chi ha sacrificato i propri diritti pur di campare una famiglia, chi ha accettato ruoli ingrati perché non aveva scelta, chi è rimasto a bocca asciutta per sfamare altre bocche. C’è qualcuno che oggi non si tiene la panza.

Il Cavaliere e il suo cavallo

Berlusconi ci ha abituati a certi suoi scarti umorali, quasi fosse il cavallo anziché il Cavaliere. Ieri, davanti all’evidenza postuma di un comportamento universalmente illiberale, ha ammesso che forse, forse con Biagi, Santoro e Luttazzi calcò la mano. Dopo quello che passerà alla minima storia di un Paese con la memoria corta come l’editto di Sofia siamo nel pieno autorevisionismo, un effetto collaterale consono a chi è abituato a farsi le leggi su misura. Per tutti quelli che invece campano di memoria, coerenza e abbordabili verità basta parlare di comprensibile retromarcia che se condita da una spruzzata di autocritica sarebbe un bel gesto, anche se tardivo. Nel caso di Berlusconi è stato invece solo un misunderstanding originato da una sua atavica cura per le sorti del servizio pubblico. I tre personaggi in questione (B, S. & L.) non mi stanno nemmeno troppo simpatici, ma questo è un discorso personale legato a regolari dettami di gusto. Se si fosse messa ai voti una legge per cacciarli questa non sarebbe passata nemmeno nel Consiglio comunale di Arcore. Eppure il Cavaliere è riuscito a farsi censore, nume tutelare, garante, guida e testa di cuoio. Ha salvato il Paese da chi faceva un “uso criminoso” della tv di Stato. Il suo Stato di memorie corte e code lunghe.

La memoria che non ci serve

Google lancia un nuovo servizio, si chiama Web History e non è altro che una forma di intrusione legalizzata nella nostra vita. In pratica, gratuitamente, sarà possibile conservare traccia delle nostre ricerche nel web quindi dei fatti nostri in modo da poterci rinfrescare la mente tra qualche anno (decennio) quando la nostra memoria sarà affidata esclusivamente a qualche grammo di silicio e a un paio di oligarchi del Sistema Gobale di Relazioni.
Finora lo spionaggio dell’attività internettiana era stato affidato a files più o meno intercettabili che ogni motore di ricerca, sito o portale ci rifilava quando credevamo di aver fatto una semplice visita virtuale. Consultavamo o cercavamo, leggevamo o ci imbattevamo… il Sistema ci piazzava quel “biscottino” nel nostro hard disk e decrittava quel che nemmeno sapevamo di noi stessi. Adesso ce lo fanno passare per un servizio aggiuntivo, quasi che si debba ringraziare per ciò che uno, fino a ieri, pensava fosse una boiata. E’ come se la Telecom ci offrisse la possibilità di riascoltare e catalogare le intercettazioni abusivamente carpite in anni di nefasto monopolio criminale (non lo dico io, ma la magistratura). Mi piace pensare a una società globale, ne ho più volte scritto anche con toni polemici nei confronti di chi la ignora o tende a parlarne senza accettarne le responsabilità. Ma – per dirla papale papale – la presa per il culo mi dà un po’ fastidio. Web History è un colpo di spugna sulla superficie infangata della privacy violata che non può trovare saponi efficaci. Non c’è bisogno di un nuovo servizio strombazzato sui media per conoscere quello che faccio da questo pc: chi non deve saperlo lo sa già. Chiedere una legittimazione è chiedere è un atto di masochismo. E io sono un tipo un po’ retro.

Liberi da Libero

Non so se oggi queste parole finiranno in un messaggio dentro una bottiglia. Sono in un momento difficile: la mia Adsl mi ha lasciato a piedi. Accade sempre più spesso. Libero Infostrada o come caspita si chiama ha promesso di darmi una connessione a 4 mega e più, in realtà l’unica velocità che riesce a mantenere è quella con la quale succhia i soldi dal mio conto in banca.
Se poi cerchi di parlare con qualcuno dell’azienda ti ritrovi in un dedalo di voci registrate che ti ricordano quanti numeri ha la tastiera del telefono (12 e più!) e quante sono le possibilità di incappare in un essere umano che possa interagire con te (0, leggi: zero).
La banda larga – e le vicende Telecom di questi giorni ce lo ricordano – è uno scandalo nazionale che dovrebbe far ballare i tavoli di un governo che si definisce “di progresso”. Il reticolo di competenze e responsabilità, con il conseguente scaricabarile tra varie compagnie telefoniche, andrebbe troncato con un sistema di azione-reazione tipicamente americano: tu mi dai un servizio che non mi soddisfa, io ti denuncio; tu non sei in grado di mantenere quel che hai promesso dietro compenso, io ti rovino.
Invidio mio padre che a settant’anni sta scoprendo il web: per lui è ancora un miracolo comunicare via internet; tra un po’ capirà che il vero miracolo è connettersi a internet.

La lettera di Claudia

Il mio amico, collega e blogger Giovanni Villino mi porta a conoscenza di questa lettera. Credo che sia giusto darle il massimo della visibilità. Per stabilire come incazzarci al meglio rimando agli eventuali commenti.

Palermo,16/04/2007

Mi chiamo Claudia P. e da anni presto la mia opera lavorativa nel settore del commercio.
Il mio curriculum vanta di un’esperienza decennale alle dipendenze delle più grandi aziende palermitane del settore commercio; nel Dicembre 2005 mi viene prospettata la possibilità di fare un colloquio per una grossa azienda nazionale che si è apprestata ad aprire i battenti a Palermo; superando brillantemente il colloquio, vengo assunta con un contratto a termine di sette mesi: contemporaneamente, però, la malattia di mio padre si aggrava e ci viene comunicato dai medici che urge un trapianto di fegato
In famiglia ci troviamo tutti inesorabilmente in un vortice affinché un organo possa salvare la vita di mio padre, che da anni combatte con lo spettro della malattia epatica.
La nostra ricerca non trova grandi risultati ma i tempi si stringono: bisogna fare qualcosa, i medici pensano ad una compatibilità familiare. Ci sottoponiamo tutti alle analisi preliminari; il mio fegato pare l’unico compatibile; nonostante i rischi e le obiezioni della mia famiglia, decido di fare quello che secondo me qualsiasi figlia avrebbe fatto per un padre: donare una parte del mio fegato.
Da allora in poi mi sono ritrovata ad affrontare un calvario fatto di day-ospital, prelievi, visite di controllo d’ogni genere. La cosa più grave e sconcertante è che quanto mi è accaduto, mi ha paradossalmente penalizzato nello svolgimento del mio lavoro, infatti, mi è comunicato improvvisamente che secondo l’azienda il mio profilo non è conforme a quanto richiesto dall’azienda stessa e ciò solo perché ho deciso di salvare la vita a mio padre.
Una settimana prima dell’intervento chirurgico, mi ritrovo fuori dal mio posto di lavoro, malgrado ciò l’intervento viene effettuato con successo sia per me sia per mio padre, ma rimane un grosso problema: provvedere al sostentamento della famiglia.
Finita la mia convalescenza, mi metto alla ricerca di un altro lavoro; la ricerca è vana e pesante, molte porte mi vengono chiuse in faccia anche dalle istituzioni, che promettono e non mantengono.
Finalmente si apre uno spiraglio e vengo contattata da un’altra grossa e conosciuta azienda a livello nazionale che ha molti punti vendita in città; mi viene offerta l’opportunità di un periodo di prova di 15 giorni con un conseguente contratto di 3 mesi.
Tuttavia, nonostante il mio impegno incondizionato e avendo messo a disposizione della medesima azienda il mio bagaglio d’esperienza decennale nel settore, mi viene bruscamente comunicato (senza alcuna motivazione specifica), che il mio profilo non è corrispondente alle esigenze dell’azienda, eludendo qualsiasi altra motivazione, ma lasciando intendere che l’intervento a cui mi sono sottoposta poteva essere l’unico motivo di esclusione (non essendocene altri!) per le eventuali conseguenze fisiche, nonostante la documentazione medica dell’ISMETT attestante il mio perfetto stato di salute.
Mi ritrovo ancora oggi senza lavoro e, nella desolazione della mia stanza mi ritrovo a scrivere uno sfogo personale che invio alle testate giornalistiche, perché è giusto che l’opinione pubblica sappia come sia crudele il destino per una ragazza che come me ha avuto il coraggio, senza nessun ripensamento alcuno, di aver salvato la vita al padre, non considerando che, oltre a fare a meno ad una parte del proprio fegato, avrebbe avuto precluso ogni possibilità di lavoro.

Ancora sui cinesi

Ho visto ieri su Ballarò una presunta responsabile del commercio cinese in Italia, o comunque una rappresentante della comunità, affermare che quando i suoi connazionali arrivano nel nostro Paese per aprire un’attività commerciale hanno bisogno di tempo per capire le nostre regole (vedi leggi). Non ho nulla contro i cinesi e contro gli immigrati in genere. Anzi, nel nome di una società multietnica, ritengo che la ricchezza di una società stia nel suo assortimento razziale. Mi sono domandato però cosa mi potrebbe accadere se decidessi di aprire un’impresa in Cina chiedendo nel contempo un periodo di riflessione per capire quali sono le norme da rispettare. Risposta: sarei in galera. E le galere di un Paese che commina ancora pene capitali e che addebita ai parenti del morto il costo del proiettile non devono essere troppo confortevoli. Abbiamo ancora molto da imparare sulle regole del mercato che sono crudeli e fondamentali come il bilancio di una nazione e come il nostro bilancio familiare. Abbiamo ancora molto da imparare per distinguere un’immigrazione che arricchisce (per cultura, economia, religione, spirito di sacrificio) da un’altra che porta solo marchi contraffatti e rifiuto di ogni principio di integrazione.
Non voglio sembrare un becero fascista, ma resto aggrappato a principi di uguaglianza e di legalità che non hanno colore né razza. Se la legge è uguale per tutti non è giusto dire cose uguali per tutti?

La nostra strage

Ancora una strage in un campus americano, ancora giovani tra le vittime, ancora armi protagoniste, ancora sgomento, ancora una volta tutti noi a scrivere ancora una volta.
C’è un bel documentario del celebrato Michael Moore che prende spunto dalla strage alla Columbine School di qualche anno fa: allora i morti furono dodici, ieri sono stati trentatre (dato provvisorio per l’alto numero di feriti).
Abbiamo sempre bisogno di aggrapparci a qualche paragone quando ci troviamo davanti a scenari così apocalittici. Cadaveri in cifre, film al botteghino, politici e politiche permissive o no, gioventù bruciacchiate, i valori di un tempo.
E’ puro egoismo. Questa smania di dover avvolgere un fatto con carta vecchia o di altri per vedere se il pacco ci sta dentro oppure no è un modo di pensare ad altro che non sia nessun altro, è un espediente per pensare solo a noi.
L’evidenza che la follia umana è di tutti e che la testa fuorviata di quel giovanissimo killer potrebbe essere la nostra o quella di nostro figlio ci terrorizza a tal punto da dover arraffare uno, dieci, mille simboli da incollare sul petto dell’assassino: la lobby delle armi, la politica di Bush, la questione asiatica, l’incomunicabilità, i modelli sullo schermo (della tv, del cinema, del computer).
No.
La mattanza di Blacksburg è un orrore dei nostri tempi. Finiamola di aggrapparci alla geografia, gli Stati Uniti sono vicini quando ci conviene e lontani quando non ci conviene. Finiamola di perseguitare i miti, i nostri trend culturali ed estetici sono condizionati da ciò che si respira negli Stati Uniti salvo erigerci a culla della civiltà quando uno, oltreoceano, fa una cazzata. Finiamola di considerare migliori le idee più balzane, come molte ne vengono fuori negli Stati Uniti, e di non mettere nel conto gli effetti collaterali. Siamo un mondo che vive sotto lo stesso tetto, ormai. Se un grassone spara un peto in una mensa aziendale di Manhattan, la puzza arriva nel nostro tinello.

Satira e buon senso

Un hacker è riuscito a entrare nel sito di Forza Italia di Massa e ha inserito un fotomontaggio in cui Silvio Berlusconi è al posto di Giovanni Brusca, nella celebre foto che cristallizza l’arresto del criminale mafioso. E’ una bravata se vogliamo anche divertente, di quelle che fanno il giro del web in pochi clic. Ciò che stona sono gli insulti che lo stesso hacker ha lasciato dietro di sé. Con quelle offese ha cancellato l’istintiva simpatia che un “simpatico mascalzone” può ispirare seppur in un surrogato di satira.
Siamo sempre ad un bivio: ciò che distingue una strada dall’altra non è solo la direzione che prende, ma anche il buon senso con cui la si percorre.

Perdere chili… e soldi

Le vie del web sono infinite. Così capita che cercando qualcosa tramite un motore di ricerca ci si imbatta in qualcos’altro. E’ in questo modo assolutamente casuale che sono venuto a conoscenza di un metodo, anzi come recita il sito un’autoterapia, chiamato Zerodiet. Dal nome si capisce subito che si tratta di un rimedio contro i chili di troppo. In pratica, apprendo dall’home page, che senza diete né altro tipo di intervento si possono perdere da 3,6 a 9,8 chili al mese. Come? Applicando due magneti all’orecchio. Non ho la competenza per confutare una sola parola tra quelle scritte sul sito. Da ignorante (e un po’ scettico) scorro la pagina alla ricerca di una testimonianza attendibile. Ne trovo due: il prodotto è “consigliato dall’Istituto Superiore di Igiene Alimentare” e “segnalato da Salus, Medicina in rete”.
Istituto Superiore…? Qualcosa di importante, mi dico. Cerco, sempre su internet. Ma l’unica cosa che trovo con la medesima sigla è l’Istituto Superiore per le Industrie Artistiche. Faccio altre ricerche e mi accorgo che altri blogger avevano annusato un odore non troppo gradevole. Per finire clicco sul link della home page di Zerodiet dove si fa riferimento a Salus. E scopro che sì le calamite in questione (perché di calamite si tratta) sono segnalate dal sito di medicina in rete, ma che la segnalazione altro non è che uno spazio pubblicitario a cura della stessa Zerodiet.
In certi casi la Rete serve a non cadere nella rete.

Gli altri no

Il nuovo demonio italiano, ancora abbronzato nonostante il sole a scacchi, ci fa sapere che in carcere ha imparato a vivere. Fabrizio Corona, dipinto dai magistrati come il fotografo ricattatore dei vip, incarna in questo momento tutto il peggio – e quindi tutto ciò di cui ci piace sentir parlare – della vita italiana. Ovviamente si tratta di un ruolo eccessivo e ingiusto dettato da esigenze di cronaca: i mezzi di comunicazione hanno sempre necessità di creare nuovi fenomeni, che siano criminali, sportivi, sociali o culturali.
Corona però avrebbe un’occasione preziosa per cercar di far valere le sue ragioni (fragili?) e contemporaneamente mettere in mora (nessun doppio senso, giuro) il sistema mediatico che lo sta demolendo cellula per cellula: dovrebbe mostrarsi umano, spogliarsi di una vacua teatralità e non sognarsi nemmeno di travestirsi da maitre à penser. Invece dal penitenziario di Potenza fa sapere che le sue memorie diventeranno probabilmente un libro e dichiara che “il carcere è una prova che quasi quasi dovrebbero fare tutti”. Sul progetto editoriale non mi pronuncio: ci sono editori che pagherebbero soldoni per una pagina di astine vergata da un personaggio così in vista, al momento.
Sull’esperienza della detenzione ho qualcosa da aggiungere al verbo coroniano: il carcere è un esperienza che dovrebbero fare tutti i delinquenti, tutti quelli che se ne infischiano delle leggi, tutti quelli che lucrano alle spalle dei poveracci, tutti i violenti e gli imbroglioni soddisfatti.
Gli altri no.