Silenzio

Mi tiro fuori dalla canea di bravi commentatori sulla tragedia di Catania. Ne parleremo a mente serena. Restano la mia personale ammirazione per le forze dell’ordine italiane e il dolore per la morte di un QG di cui è bene scandire il nome: Filippo Raciti, ispettore capo.

Veronica e Silvio

La moglie di Silvio Berlusconi, la signora Veronica, affida a la Repubblica una lettera nella quale chiede a suo marito scuse pubbliche. Il motivo sta nell’ennesima guasconata del celebre consorte in occasione – stavolta – della cena per i Telegatti. I dettagli potete leggerli nei link che vi ho fornito. La riflessione va su due piani ben distinti. E’ giusto che un privato cittadino lavi i panni in pubblico laddove il pubblico è la dimensione che gli ha dato fama e successo? Ovviamente sì. E può un personaggio pubblico avere diritto a una cortina fumogena che lo difenda dalle frecce del pettegolezzo senza che questo lo faccia sembrare odioso? Ovviamente sì ma è impossibile. Ecco quindi che i due piani, quello pubblico e quello privato, presi singolarmente ci portano verso la medesima conclusione. Il diritto alla privacy non ha un peso universale. E la signora Berlusconi lo sa, innanzitutto a proprie spese.
La sua lettera è dirompente perché introduce il tema della vendetta matrimoniale – sottile, nonviolenta, garbata seppur durissima – nelle vicende politiche. In Italia non siamo esperti in materia: gli americani meglio di noi conoscono quanto sia importante la vita sotto le lenzuola per la costruzione, la fine e l’eventuale rinascita di un personaggio pubblico. Veronica Berlusconi dà un doppio colpo al marito. Il guanto è ovattato, ma sotto c’è l’acciaio. All’uomo manda a dire che, se uno ha fatto una scelta matrimoniale e soprattutto ha una certa età, è da imbecilli trotterellare dietro gonnelle, scollature, veline e tettone. Al politico raschia la pelle perché solo così sa di poter trovare la carne viva di colui che un tempo è stato unto dal Signore.

Il fisico e il cervello

In un mondo che sembra girare al contrario, ciò che è normale fa scalpore. Il Los Angeles Time ha pubblicato le foto di Arnold Schwarzenegger a sessant’anni accostandole a quelle di quarant’anni fa e commentando il tutto con la seguente frase: “Padre tempo ha terminato lo splendore fisico del Terminator”. Non c’è nulla di male nel constatare che il tempo passa, c’è molta imbecillità nel far assurgere a livello di notizia il fatto che ciò accade. Mi piacerebbe poter aprire un giornale e vedere una foto del cervello del direttore del Los Angeles Time accanto a un grande punto interrogativo. E una didascalia: “Padre tempo ha terminato ciò che non ha mai iniziato”.

L’asino che vola

Un blogger australiano ha ammesso (o confessato) di essere stato pagato da Microsoft per modificare i contenuti di Wikipedia, la più famosa enciclopedia online. Per i due o tre internauti che non lo sapessero vale la pena di ricordare che Wikipedia è nata e prolifera come risorsa indipendente: chiunque può editare voci esistenti e scriverne di nuove. Io stesso ho l’onore di essere incluso nei suoi elenchi.
Sono molto sorpreso dalla sorpresa con la quale è stata accolta questa notizia, soprattutto dal fondatore dell’enciclopedia. Spesso la componente di ingenuità nei guru e nei geniacci rasenta la faccia tosta. E’ mai possibile che uno così intelligente – mi chiedo – possa alzare lo sguardo alla notizia che c’è un asino che vola? Perché apprendere che qualcuno – che sia Microsoft o mio cugino – abbia interesse, stupidità, coscienza o incoscienza per sabotare e\o cambiare dei dati sui quali il controllo è praticamente impossibile e poi dichiararsi delusi è quantomeno da incauti o da creduloni. Indipendenti sì, ma con giudizio.

La rissa in tv

Notizie dai giornali di oggi. Il rischio di disastro ambientale nel canale della Manica. Danni cerebrali per la sedicenne finita in coma dopo il blackout in sala operatoria. Le elezioni in Serbia. La lite a Buona Domenica. Mi soffermo su quest’ultima notizia, anzi “notizia”. Il rischio nel criticare questo genere di accadimento è di essere tacciato di peloso snobismo, rischio che in quest’occasione corro volentieri. A Buona Domenica ieri si sono presi a parolacce in diretta. Basta l’elenco dei partecipanti alla semi-rissa per spiegare tutto: Nina Moric (foto), Elisabetta Gregoraci, Stefano Bettarini, Fabrizio Corona, Paola Perego. Con un palco così forbito si poteva ottenere un risultato migliore? Ci hanno insegnato, quando la situazione diventa insostenibile, a pensare (e dire) che “il mondo è bello perché è vario”. Mi oppongo, a Buona Domenica è troppo vario.

Professione: Paris Hilton

Mi dispiace per alcuni di voi, ma l’avevo promesso. Di Paris Hilton dovevo tornare a parlare. Questa signora di cui non si conosce il mestiere è la nipote di Conrad Hilton Jr., già marito di Elizabeth Taylor e fondatore della catena di hotel Hilton. Dicono i suoi biografi che, a parte l’esordio con un video porno distribuito clandestinamente su internet, Paris Hilton ha recitato in qualche film, cantato qualche canzone, disegnato qualche vestito e soprattutto flirtato molto. Ultimamente è stata testimonial per una azienda di telefonia italiana. E’ il modello migliore a cui ispirarsi per una fetta di generazione che si riconosce nei valori della notte brava e che crede fermamente nell’umanesimo che sta al di sotto della cintola. Non ha troppe colpe, la signora. Non più di quante se ne possono attribuire al piercing o al tanga ben esibito. E’ comunque un simbolo incosciente di un periodo in cui ogni trasgressione, errore, scemenza o reato passa per un videoclip sul telefonino.

Antimafia

Nei giorni scorsi è riemersa la polemica sui “professionisti dell’antimafia”. Sul Corriere della sera Tano Grasso ha ammesso che Leonardo Sciascia non aveva torto in quell’articolo del 1987. Lo stesso giorno su Repubblica un ex componente del coordinamento antimafia palermitano ha raccontato come e perché – proprio a seguito dell’articolo incriminato -si decise a bollare lo scrittore di Racalmuto come quaquaraquà.
Sono sempre stato d’accordo con quanto scrisse Sciascia in quell’editoriale. Senza temere di scalfire alcuna corona, lo scrittore rappresentò – dicendola tutta – una tendenza del tempo che poi sarebbe divenuta epidemia. Fondamentalmente c’era un eccesso di presenzialismo, di cerimonie, di parole ad effetto. Sciascia fece i nomi di Orlando e Borsellino, non certo per esporli o per ferirli: sacrificò qualcosa di se stesso (fare quei nomi allora significava mettersi più che in gioco) nel segno della chiarezza. Servivano due esempi, lui li fece: a torto o a ragione. Si poteva aprire un dibattito nell’antimafia, proprio perché lo scossone non arrivava da un nemico politico né da un nemico in genere. Invece si scelse lo scontro aperto, “il chi non è con noi è contro di noi”, il pintacudismo, il matrimonio con una certa giustizia militante, la trincea.
Erano anni difficili e molte di quelle persone rischiavano la pelle. Al dibattito si preferì l’attacco, confondendo spesso le parole con i macigni, i mafiosi con i dissenzienti, la fretta con l’urgenza. Sul fronte della cronaca andò malissimo. Cosa nostra tentò di riaffermare il suo ordine col tritolo e i proiettili e, per qualche anno, ci riuscì.
L’esperienza della stagione antimafia è una grande eredità, con tutti i suoi limiti ma anche con i suoi atti di eroismo. Ciò che indigna oggi è la sopravvivenza di una classe di medio-alto livello che ha navigato in tutti i mari, usando ogni genere di imbarcazione, infrangendo più di un codice, strigendo patti ora pirateschi ora pilateschi. E’ un ampia squadra di politici, imprenditori, giornalisti, magistrati, avvocati che facendosi scudo di Sciascia ha tratto spunto per azzannare il nemico e per imbastire affari trasversali. Raramente questi signori si sono esposti in prima persona, hanno sempre mandato a dire anziché dire. Sono geni del trasformismo, galleggianti umani, coscienze deboli, forti di idee che cambiano a seconda del vento. Non sono mafiosi, sono quelli che, vent’anni fa, erano i professionisti dell’anti-antimafia.

Ustica

Certe volte non arrivo subito al dunque. Ci metto del tempo, ore, giorni. Specialmente in questo periodo di febbre cavallina ho dei pensieri che restano incagliati in un angolo di cervello. Poi una lettura, una parola ascoltata, un semplice colpo di tosse e… vengono fuori.
Mi scuso quindi del ritardo col quale affronto, nelle consuete poche righe quotidiane, un argomento importante come la strage di Ustica. Sapete che la Cassazione ha chiuso definitivamente il procedimento penale senza colpevoli. Dobbiamo farcene una ragione, quel disastro aereo (81 morti di cui 13 bambini) non fu colpa di nessuno. Bomba o missile? Colpa dei francesi, degli italiani o degli americani? Zampino di servizi segreti e aiutino della P2? Macché, ricostruzioni da film! Quel DC9 era semplicemente stanco di volare anche se i suoi passeggeri non lo erano di vivere. I tracciati radar cancellati? E vabbé, ogni tanto bisogna pur fare un po’ di pulizia.
Ho seguito passo per passo questa vicenda per motivi personali e professionali. Non c’è mai stato un solo esponente politico capace di intestarsi una battaglia di verità. E non parliamo di risarcimenti. Ai parenti delle vittime e a quelli che tra noi si sono autoeletti amici-tifosi-sostenitori dei parenti delle vittime non interessa dei soldi. Di questa storia sappiamo praticamente tutto, com’è finita, com’è cominciata, conosciamo personaggi, comparse e registi. Ci vuole soltanto un parlamentare che trovi il coraggio di salire su un palco, con le carte in mano, per raccontarcela per filo e per segno.

L’erba del vicino

Di minuto in minuto le notizie che arrivano sulla strage di Erba danno un’idea sempre più incredibile di ciò che è accaduto. I vicini di casa hanno confessato. Quattro morti. Il bimbo sgozzato dalla donna. Gli altri massacrati dal marito.
Non credo che stavolta ci possano essere ammortizzatori mediatici. Vespa può ricostruire quanto vuole il delitto nel suo salotto. Qualche altro sanguinario dei canali televisivi specializzati scomoderà psichiatri ed esperti criminali. Io, e qualche altro con le scatole piene di questa dietrologia psico-catodica, vorremmo assistere a un programma fantasy sul tema “cosa fareste a questi schifosi assassini?”.
Solo questo ci interessa.

I cadaveri dell’Ariston

Parlare male del Festival di Sanremo è come criticare la manifestazione di Miss Italia o come maledire il governo mentre il cielo si rabbuia di nuvole: un luogo comune, uno sfogo umano, una scemenza. Parlarne bene però è difficile, eh.
La rosa dei big riesumata da Baudo e i suoi commilitoni non deve suscitare scandalo: la canzone italiana – quella vera, quella che gli italiani ascoltano a casa, in auto, alla radio o che scaricano col pc – è sempre rimasta ben distante dal teatro Ariston. Tranne rare eccezioni, il palco di Sanremo è servito negli anni ai seguenti scopi:
1) Riesumare cadaveri per dimostrare che la decomposizione si può combattere con un po’ di cerone e qualche applauso telecomandato.
2) Confezionare megacompilation, trainate da uno-due brani al massimo, per battere il record delle copie piratate.
3) Portare alla vittoria sconosciuti e far sì che restino tali per l’eternità: un caso per tutti, i Jalisse.
4) Offrire la possibilità alle più crudeli major discografiche di sfogare i propri istinti: sacrifici di ugole, scambi di ostaggi tra musicisti, ricatti e riscatti.
5) Manipolare il mercato italiano con una tecnica di ipnosi collettiva: Al Bano, Nada, Gianni e Marcella Bella… ripetete con me… Al Bano, Nada, Gianni…
6) Far ingrossare il fegato agli appassionati di canzonette.

Insomma anche quest’anno avremo di che parlare male per qualche sera, sbuffando davanti alla tv e ricordando improbabili edizioni del Festival in cui “la musica era musica”. Perché Sanremo è Sanremo.