Un estratto dall’articolo di oggi su la Repubblica.
Sommersa dai debiti, l’Amat rischia di diventare la nuova Amia. Lo spettro del disastro economico aleggia sulla società quasi come una maledizione – la maledizione delle spa municipali – quindi d’ora in poi è bene che ogni analisi, deduzione, previsione o semplice osservazione in tema di servizio pubblico a Palermo sia preceduta da un rito scaramantico. Ovvero toccare ferro prima di toccare il fondo poiché muoversi “con la virtù per guida e la fortuna per compagna” è impossibile in queste lande, a causa della rarità della prima. Comunque, anche armandosi di amuleti e talismani, sarebbe difficile accollare alla buona sorte il compito di ripianare la voragine di trenta milioni di euro in fondo alla quale è precipitata l’Amat, se non altro perché quando si parla di conti in rosso, più che i maghi vengono in mente in magheggi.
Al netto degli eventi ormai entrati nella minuscola mitologia del palermitano medio – quando dici Dubai, come in un riflesso condizionato, pensi a Vincenzo Galioto che addenta un’aragosta – l’Amia è morta di sprechi che dovrebbero essere raccolti in un manuale del “come non si fa”: il personale in eccesso, gli stipendi astronomici di alcuni dirigenti e le trappole di un servizio pubblico con un committente unico che è, cioè, un imperfetto servizio privato.
Nel caso dell’Amat invece un dato allarmante riguarda il numero dei dipendenti che possono usufruire di un permesso retribuito, senza preavviso, per assistere parenti disabili: 600 su 1.900, quasi uno su tre. E l’allarme dovrebbe essere anche scientifico visto che si scopre un’incredibile concentrazione di portatori di handicap tra i familiari dell’azienda e si rilegge col senno di poi l’antico avviso sui bus, “non parlare al conducente”, come un espediente per evitare non la distrazione ma, chissà, il contagio. (…)
L’Amat vive di risorse derivate, cioè i fondi di Comune e Regione, e poco ricava dalla vendita di biglietti e abbonamenti (poco rispetto a quel che potrebbe incassare). A Palermo infatti un passeggero su due viaggia senza pagare e contestualmente si lamenta della qualità del servizio. (…)
L’Amat non è (ancora?) l’Amia, ma ogni volta che un’azienda campata da soldi pubblici si trova in difficoltà perché i soldi non ci sono o sono stati sprecati, torna l’antico pericolosissimo luogo comune: “Ma allora le tasse che le paghiamo a fare?”. Come se esistesse un tracciamento del denaro versato nelle casse dell’erario grazie al quale identificare la tasca in cui finisce la nostra banconota.
Ormai ci si è talmente assuefatti alla cattiva qualità dei servizi pubblici, che il problema non è più la sopravvivenza in un posto dove le cose non funzionano, ma il fatto che si potrebbe pagare di meno per avere ancora meno.
Se si comincia a cercare uno sconto sui disastri, è segno che il peggio non è ancora passato, ma è semplicemente in ritardo. Come il 615 sulla linea tra lo Zen e viale del Fante.