Di Karol Wojtyla mi piace ricordare il suo grido contro la mafia, nel maggio del 1993, quando nella Valle dei Templi di Agrigento ruppe il protocollo e, a braccio, lanciò la sua invettiva contro i mafiosi ordinando loro di convertirsi (il pentimento era troppo poco per crimini così grandi).
Nel giorno della sua beatificazione preferisco invece sorvolare sulle sue posizioni conservatrici a proposito di aborto e ordinazione sacerdotale femminile, sul silenzio da lui “ispirato” per evitare che i casi di pedofilia del clero divenissero di dominio pubblico, e sulla sua ferma avversione contro l’uso del preservativo come mezzo di prevenzione dell’AIDS.
Mi chiedo che cosa voglia dire la parola beatificazione, cerco e purtroppo non trovo un significato letterale ma solamente un significato legato al linguaggio settoriale della religione:
“La beatificazione nel Cattolicesimo è il riconoscimento formale, da parte della Chiesa, dell’ascensione di una persona defunta al Paradiso e la conseguente capacità di intercedere a favore di individui che pregano nel nome della persona beatificata, la quale però non può ancora rientrare formalmente tra i santi, il che richiede un processo più lungo, la canonizzazione.”
A me pare l’ennesimo delirio di onnipotenza della chiesa cattolica e un evidente e necessario retaggio pagano di quelle religioni delle quali si condannarono inoltre i riti sacrificali. Che cosa è stata la cerimonia del 30 aprile se non un rito senza agnello? Indicativa anche la collocazione: il Circo Massimo.
Sull’uomo Wojtyla ho le stesse riserve di Gery. Ha vissuto da uomo, ha assunto un incarico spesso più politico che spirituale, lasciamo che il suo operato lo giudichi qualcun altro. Gli affari ultraterreni se sono tali poco ci riguardano.