I bambini abruzzesi

abruzzo bambiniHo un ricordo. E’ il mio quinto compleanno, abbiamo mangiato i tortellini e la torta con la panna. I miei mi hanno regalato un organo Bontempi, bianco e arancione, coi tasti numerati e soprattutto con una ventola che ronza come un phon. Mia madre ha un pancione che annuncia la nascita imminente di mio fratello. Si va a letto presto, domani è lunedì.
Nel cuore della notte, in una notte che si sarebbe rivelata con poco cuore, mio padre mi strappa dal letto. Fuggiamo da casa perché qualcosa di terribile è accaduto, sta accadendo o forse accadrà. Io non capisco niente: non sono preoccupato, forse l’imprevisto mi eccita pure.
Saltiamo sulla nostra Fiat Millecento e partiamo per una breve corsa. Il piazzale dello stadio è il nostro rifugio, a un chilometro da casa. Rifugio. La parola mi resta dentro. Come fa ad essere rifugio un luogo aperto? I bambini passano il tempo a costruire case con cartoni, sedie, coperte, tavoli. Un rifugio senza tetto che senso ha? E’ l’unico interrogativo – e anche il solo elemento di angoscia – che mi rimane dell’esperienza breve e indiretta di terremotato: il massacro avvenne infatti un centinaio di chilometri più in la, nel Belice. Notte tra il 14 e il 15 gennaio 1968.
Ecco, il mio auspicio è che quanti più bambini abruzzesi possano ricordare la loro lunga notte con un semplice ingenuo ricordo: un rifugio senza tetto che senso ha?
Poi, speriamo presto, si torna a casa.

Pubblicato da

Gery Palazzotto

Palermo. Classe 1963. Sei-sette vite vissute sempre sbagliando da solo. Sportivo nonostante tutto.

26 commenti su “I bambini abruzzesi”

  1. I francesi hanno una bellissima espressione “remettre le pendules à l’heure”. Che avvenimenti del genere, così più grandi di noi, ci costringano a spostare la nostra attenzione tanto egocentristica al bisogno e alle necessitå altrui.

  2. Mandiamo tutti un contributo, via sms o con un bonifico. E’ la cosa più sensata da fare.

  3. Per me, è il primo ricordo. Avevo meno di due anni. Mi vedo in braccio ad uno zio, il mio preferito, Guido. In un ascensore smisurato, grigio metallo. Poi, nella notte. Ai piedi di quel palazzo castello di tredici piani in via Ammiraglio Rizzo. Noi, naturalmente, abitavamo al tredicesimo piano. La casa dondolava come un pendolo. E mia madre, incinta di mio fratello, pensava che qualcuno le avesse spostato il letto. Dormimmo in macchina, mi hanno raccontato. E passammo dei mesi a Roma, da amici. Mi sono ricordato di questo, ieri, quando ho chiamato Alberto, un mio caro amico. La sua casa, a L’Aquila, è inagibile. Ora è da un cugino, a Pescara. Gli ho detto: se posso aiutarti, in qualunque modo, non farti scrupoli: chiedi pure. La mia casa è la tua casa.

  4. Domenica 14 gennaio ’68, 13.30. Scossetta preparatoria, lieve, inavvertibile quasi. Mia nonna che a tavola, a pranzo, mentre stiamo pregustando il primo boccone di tagliatelle, sottovoce, discreta, dà il via a una litania di pochi secondi: “santarusulìa, santarusùlia, santarusulìa, santarusulìa…”); io, undici anni appena fatti, sorrido e dico tra me e me “è impazzita” ma scorgo lo sguardo preoccupato che lancia a mio padre e che mio padre le ricambia; poi, di notte, quella notte, la casa che trema, i tre piccoli guerrieri stilizzati in bronzo, firmati da non so più quale scultore ma di cui mio padre andava fiero, che cadono giù dal ripiano della libreria in teak, la fuga, ancora mia nonna, a mia madre, correndo verso la porta, scappando: “u latti pu picciriddu, u latti pu picciriddu…”. Poi la veglia, nel piazzale-agrumeto di fronte casa, una viale Strasburgo non ancora cementificata del tutto e una vita che un po’ cambia e un po’ no. Ricordo che, per tre mesi, sono andato a scuola di pomeriggio, dall’una alle cinque, cambiando le mie piccole abitudini. Di mattina, la media “Pecoraro” (allora in via Libertà) ospitava gli alunni di quelle scuole del centro storico che il terremoto aveva reso inagibili. Quella breve ma importante novità, per me, ragazzino, fu quasi un gioco.

  5. Caro Gery, ciò che non viene mai raccontato è quanto vedono i soccoritori, cosa fanno e che devastazione resta per sempre nelle loro anime. Sono stato tra quelli che nell’80 si ritrovò in Irpinia con la cosidetta “colonna Palermo”. Medici, infermieri, soldati, cucinieri e tanta gente che non sapeva nemmeno che fare. A Muro dei Cappuccini ci chiamarono per “togliere quei cadaveri dalla strada che i camion non possono passare”, a Brienza, per dare da mangiare a gente che non aveva nemmeno voglia di aprire la bocca e tu la facevi mangiare mentre loro piangevano e tu dovevi rimanere impassibile. E le tende che non c’erano, l’acqua per lavarsi era un sogno: altro che telefonini. E le notti chiusi nei sacchi a pelo che non si aprivamo mai quando c’era la scossa e dovevi scappare. Maglioni che puzzavano, latte a terra perchè era scaduto, usato per lavare… altri tempi, forse.

  6. Fino a domenica scorsa mi sono lamentato per il ritardo con cui stanno procedendo dei lavori di rifacimento dei bagni a casa mia. Mi sentivo accerchiato da sacchi di cemento, impronte di scarponi, polvere che non si decide a precipitare. Lunedì avevo già vergogna di me stesso a parlare di “macerie” in casa. Ecco, eventi di questo genere ci fanno pensare anche a quanto spesso riusciamo a trasformare in tragedie le nostre piccole minchiate da viziati. E fortunati. Ho sopportato anche Vespa “sul campo” che, giacca e cravatta blu, si aggirava tra le rovine della “sua” L’aquila raccogliendo, lacrimevole, relitti di peluche smarriti nel disastro. Il dramma vero fa passare in sordina anche baggianate del genere. Mi associo all’invito di abbattiamo sulle donazioni via sms. Mi sono già attivato.

  7. Vorrei aggiungere a quanto detto sopra a proposito di Vespa (quando sarà approvato… mi è scappata una parolaccina) un arguto intervento di Aldo Grasso nella sua rubrica “Televisioni”:

    “A proposito di conduttori di talk show, Leon Wieseltier scrive che costoro «sono pagati per non retrocedere mai di fronte a ciò che non comprendono, per avere parole anche quando non hanno pensieri». E’ una definizione calzante perché la tv, per sua natura, non conosce la potenza del lutto: altrimenti conoscerebbe il nero, il silenzio. la sospensione. Conosce solo la consolazione, il «parliamone», che è la forma moderna dell’oblio. Così, nel profluvio di chiacchiere, di celebrazioni, di pianti e rimpianti tutto impercettibilmente verrà confuso e dimenticato, anche il terremoto. Nessuno rimedierà alle ingiustizie commesse ma tutti avranno la coscienza salva per aver partecipato o visto in tv il sangue e la polvere dell morte in Abruzzo”.

  8. Ieri ho passato gran parte della giornata a guardare le foto e i video su internet, ho apprezzato molto l’approccio del Corriere.it, meno quello di Repubblica (un po’… affannato), ho visto un paio di tg. Rabbia e afflizione, avrei voluto essere lì a dare una mano.
    Ho retto fino al peluche di Bruno Vespa, poi ho spento la tv.

  9. Vespa, che è aquilano, è andato in Abruzzo per vedere se si è lesionata la piscina della sua villa?

  10. Io che essendo molto anziano ho vissuto in prima persona,come medico della sanita’ publica,molte di queste tragedie dal Vaions al terremoto del belice mi sento perfettamente in sintona con le sensazioni provate da cacciatorino che gli fanno molto onore e che sono convinto che ci rendono migliori.Mi sono convinto inoltre che, oltre allo sciacallagio dei malavitosi, esiste uno sciacallaggio giornalistico.

  11. A proposito di donazioni alcuni giorni fa leggevo che in occasione dell’alluvione del polesine da parte dei sindacati venne la proposta ai lavoratori di versare una parte della loro giornata lavorativa. Porebbe essere attuata anche oggi almeno per i redditi piu’ alti.

  12. Immagini devastanti, che profondo senso di smarrimento…E che pena. Non credo sia possibile trattenere le lacrime quando si apprende che ci sono nuclei familiari tranciati, che donne che hanno da poco partito sono costrette a scappare dall’ospedale per mettersi in salvo, che ci sono state madri che hanno perso la vita per proteggere i loro piccoli in tenerissima età. Un’ingiustizia che non avrà mai risarcimenti .

  13. Anche mia madre era incinta di mio fratello; Era la notte del 14 gennaio del 1968 (mio fratello nasceva il 09 febbraio) io avevo due anni e non mi ricordo nulla, se non fosse lì a ricordarmelo una cicatrice nel naso ( sette punti) che mi procurò una rovinosa caduta di mio padre ( con me in braccio ) dalle scale che , frettolosamente ,percorse per metterci in salvo.
    Anno 1968, da via veneto (palermo )

  14. Due sentimenti contrapposti agitavano il mio cuore di undicenne: quello ludico e quello dell’angoscia. La prima scossa tremenda ci sorprese nel cuore della notte. Il letto ballava e si dondolava e saltellava a scatti, non so, se in avanti o all’indietro. Forse in avanti e indietro. Pensavo fosse uno scherzo cretino di Rita, mia sorella. E invece mia madre un minuto dopo urlava che dovevamo scappare. Sì, ma dove? Ricordo l’angoscia di miopadre che non sapeva cosa organizzare per tentare di rassicurarci. Era bianco come un cencio e non possedeva l’auto. Dove fuggivamo senza un mezzo di locomozione? Avremmo avuto una cinquecento solo l’anno successivo.

  15. Signor Camarrone,
    colgo in Lei una volgarità inutile che la prego di attenuare essendo io profondamente allergico.
    Pretendo le sue scuse
    Dottor Roberto Torta

  16. La mia volgarità, Dottore, è inferiore a quella con la quale Lei accompagna fastidiosamente ogni mio commento, in qualsiasi Blog Lei trovi ospitalità. Se vuole, Dottore, possiamo scusarci simultaneamente. Al fine esclusivo, Dottore, di non più incontrarci, neanche virtualmente. Dottore.

  17. Sarà per questo – e per altro ancora, ma non ho sufficienti competenze in materia di psicanalisi a distanza – che Lei si firma Dottore e dà del Signore agli altri, con la volontà di offendere: la stessa volontà che la spinge a denigrare le opinioni di chi ha delle opinioni. Lei, Dottore, teme di diventare Infermiere, o di esserlo già, e con le sue sgrammaticature cerca di sfuggire ad un anonimato per Lei, Dottore, evidentemente insopportabile. Non sa nemmeno, usando a sproposito il termine Signori, quanto sia importante esserlo, Signori. Tacendo poi del fatto che sbaglia pure le citazioni. Si nasce Signori, non Dottori. Ad ogni modo: Lei è nato Dottore, Dottore. Non tema di diventare Infermiere. E se dovesse accadere, non ne faccia pagar lo scotto al mondo, con quel livore che semina ad ogni suo passo telematico.

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