La parola di Sofri

Stasera su Raitre, a scanso di sorprese, Adriano Sofri, condannato a 22 anni per l’omicidio del commissario Calabresi, sarà ospite di Fabio Fazio. Come saprete, c’è una lunga scia di polemiche. Non è la prima volta che Sofri viene intervistato, ma stavolta ha ottenuto il permesso del giudice per lasciare i domiciliari e andare nello studio televisivo, e per la prima volta parlerà in diretta.
Sofri è accusato di un reato gravissimo, ma è anche al centro di una controversa ricostruzione giudiziaria. Alcuni di voi conoscono il mio morboso attaccamento alle regole, al rispetto delle norme. Il discorso potrebbe chiudersi qui. Però, in questo caso, credo che ci sia da fare qualche considerazione.
Adriano Sofri è, al di là della sua fedina penale, un intellettuale che si è guadagnato la fiducia letteraria del Paese. Ha scritto, da detenuto, pagine di grande valore. E la vita ci insegna che, nella storia, il valore sta nei concetti non nelle mani che li plasmano.
Va da Fazio a presentare il suo ultimo libro e non sarà tappandogli la bocca che si restituirà giustizia alla famiglia Calabresi. Anche perché Sofri, in questi anni, si è distinto come artefice di una cultura pacata e senza rabberciamenti. Non è Vallanzasca. Le sue opere possono piacere o non piacere. Ha il diritto di parlarne fin quando non approfitta del mezzo che gli viene concesso. La sua pena non è sospesa per i minuti della trasmissione. Anzi – credo – che gli peserà ancor di più.
Non c’è verso che valga la libertà se non nasce libero.

Vecchiaia

Leggo un bel libro che mi ha regalato un amico, “Intervista sul cinema a Federico Fellini”, e mi soffermo su un passo, proprio all’inizio, che prende spunto da una citazione di Simone de Beauvoir: “La vecchiaia ti afferra all’improvviso”.
Dice Fellini: “E’ verissimo. Fino all’altro ieri ero sempre il più giovane del gruppo, in qualunque comitiva, in qualunque tavolata. Come diavolo è potuto accadere che nel giro di poche ore, un giorno, diciamo anche una settimana, io sia diventato improvvisamente il più vecchio?”
Non sono vecchio, ma ricordo benissimo quando mi sono sentito invecchiato. E’ accaduto in una mattina d’inverno di tre anni fa. Mi sono svegliato, ho fatto le solite cose e mi sono reso conto che non ero più giovane. Non mi chiedete dettagli, non saprei darveli. Non c’entrano le rughe, gli acciacchi, i capelli che se ne vanno. E’ un respiro interiore, lo senti. Percepisci gli eventi in modo diverso, hai reazioni nuove, sei più cauto quando dovresti osare e più scatenato quando ci vorrebbe maggiore cautela. Usi la rassegnazione come oppiaceo e ti droghi di cose da fare. E gioisci quando il panettiere, che ha la metà dei tuoi anni, ti dà del tu.

Inferno e paradiso

“Il paradiso lo preferisco per il clima, l’inferno per la compagnia”. Una frase (di Oscar Wilde) che mi accompagna da decenni su cui c’è da discutere per secoli. Io ci provo, proviamo a provarne la fondatezza?

Cinque sportelli di felicità

In un raro momento di catalessi televisiva, per la precisione tra le 20,30 e le 20,45 di ieri, mi sono fatto artigliare dalla pubblicità. Uno spot su due (statistica casalinga) è di case automobilistiche. Ho scoperto che se ho un problema di psiche, di relazione, di sentimento, di contabilità, di famiglia, di lavoro, di salute, di vacanze, di umore, non devo far altro che acquistare una nuova auto. Bastano 450 comode rate, a tasso da esecuzione capitale, per una protesi sociale a cinque sportelli, sicura e rapida come un’arma avveniristica, solida come l’appendice sessuale di Rocco Siffredi (postumi della discussione di ieri, scusate), rassicurante come l’illusione della felicità.
Ho un’auto di cui pagherò le rate fino al 2011. Forse dovevo osare di più.

Elogio del sonno solitario


Roberto Torta, per quel che so, è un ingegnere originario dell’Ennese che lavora a Palermo per una multinazionale. So pochissimo di lui, in generale. Però mi fido perché ha opinioni controcorrente, non sempre condivisibili, ma comunque divertenti. Roberto Torta è una specie di illusione vivente, eppure mantiene un contatto con la realtà, la sua, che lo rende corpo, materia, più di molte altre persone che ostentano onestà, lungimiranza, candore, coerenza. Per me potrebbe essere Kaiser Soze (o Soza, o Sosa, o Sose, esistono varie versioni) e per questo, dal momento che “I soliti sospetti” è uno dei miei film preferiti, ha lo stesso fascino del diavolo che in un soffio svanisce.
Ora leggete e incazzatevi pure, se volete. Ma con lui, eh!

di Roberto Torta

Ci pensavo stamattina, mentre guardavo i giornali online. Avevo il pc sulle gambe e alla mia destra una pila di giornali, riviste e libri. E anche le calze. Ma quanto è bello dormire solo?
Ora… lo so che non è bello dirlo. E neanche gentile. Ma superata la soglia dei 40 anni, quando pensavo che tutte le certezze si fossero frantumate, ecco che ne sorge una nuova. Pulita.
Amo dormire da solo.
E non c’entra niente l’amore. Per carità. Quando abbraccio la mia donna, quando, dopo aver fatto l’amore, mi riempio del suo profumo, continuo a godere di momenti, che, devo dirlo, finiscono. Finiscono quando, magari, hai mangiato pesante e vorresti, con la pesantezza che solo l’uomo riesce ad esprimere, emanare quell’aria non troppo pulita che è lì dentro di invece vorrebbe librarsi tranquillamente. Di notte succede. E se all’inizio di te una donna ama anche quel rumore notturno, col passare degli anni nessuno ti sopporta. Poi c’è il risveglio. E’ inutile negarlo. Siamo dei mostri atterrati da un altro pianeta dove c’hanno riempito di pugni. Gonfi e con un alito che… sì insomma, sappiamo bene come siamo al mattino. Tutti, uomini e donne.
Ma….dormire solo. Godere dello spazio, del silenzio, sapere che nessuno al tuo fianco si muoverà. Svegliarsi e aprire il giornale. Svegliarsi e pensare senza nessuno che ti dice: “Che hai? Stai male? Vuoi che ti faccio un canarino? A cosa stai pensando?”
Quante discussioni nate di notte anche solo perché lei t’aveva toccato involontariamente…
Dormire abbracciati al cuscino senza suscitare gelosie. Alzarsi, fare la pipì anche tre volte di seguito senza alcuna vergogna. Dormire e svegliarsi da soli. Accendere il pc o leggere un libro senza alcun commento. Senza alcuna parola. In un letto grande. A due piazze (ma chi l’ha inventato il letto a due piazze? ). Sapere di russare e non per questo sentirsi un assassino. Avere un bell’incubo o un sogno dolce e non doverlo comunicare. Il sogno è solitudine.
Attenzione. Non vorrei essere scambiato per cinico o per cattivo. O se volete, fate pure. Ho dormito con tante donne e da molti anni ormai ho un’amabile convivente. Eppure questa certezza, questa beatitudine del dormire da solo credo sia un privilegio. Un regalo alla propria convivenza, perché tanto quando dormi non ci sei. Dormi e basta. E poi non sapere che qualcuno ti guarda mentre dormi che magari hai la bocca aperta, l’otturazione in bella mostra, la lingua impastata, parli e sa dio quel che dici.
Ebbene sì. Sono per la separazione dei sonni.

Il menù di Pippo

Ho troppa stima per Pippo Baudo per tacere su alcuni nomi da lui inclusi nell’elenco dei big di Sanremo. Per la dodicesima volta ci sarà Toto Cutugno, per la decima Little Tony e Michele Zarrillo, per l’ottava volta Mietta. Passi per Little Tony, che quest’anno festeggia i cinquant’anni di onorata carriera e – aggiungo – di vita ibernata, ma davvero Cutugno, Zarrillo e Mietta sono big della musica italiana contemporanea? Non giudico la professionalità degli artisti in questione, credo però che vada rispettata anche la “professionalità” degli ascoltatori, che hanno gusti, orientamenti, orecchie e cervello che contano. E che dovrebbero pesare nella scelta del menù. Altrimenti il Festival sarà sempre la solita minestra preparata per palati che non conosciamo, per gente che non mangia ma che stranamente paga il conto. E paga, paga.

Perdono benefico

Leggo la summa di diversi studi scientifici secondo i quali il perdono fa bene alla salute. Addirittura arrivare ad augurarsi il bene di chi ci ha fatto soffrire avrebbe effetti miracolosi su pressione, depressione e sarebbe un vero toccasana per tutto l’organismo. Soprattutto per chi se l’è fatta franca scampando a una meritata vendetta.

Storie

Sto scrivendo una nuova storia. Ogni volta che mi cimento in un’impresa del genere ho una strana sensazione che attraversa i seguenti stadi.
Entusiasmo.
Vertigine.
Comunicatività.
Ritrosia.
Leggerezza.
Timore.
(sindrome di) Abbandono, bruttanatroccolite.
Depressione.
Ossessività compulsiva.
Ilarità.
Debolezza verso i vizi.
Attaccamento allo sport.
Senso di onnipotenza.
Debolezza.
Felicità.
Basta per farvi comprendere la potenza delle storie? Eppure il raccontare è un’emozione inferiore rispetto al leggere. Allora perché di storie non ce ne narriamo più? In una favola, in un racconto, in un’avventura impaginata c’è un tumulto di sentimenti e sensazioni unico, in alcuni casi indimenticabile.
Sarò scontato, ma vi chiedo una cosa.
Stasera togliete il televisore dalla vostra stanza da letto. Troverete il tempo per leggere di paesi lontani ed eroi vicini, per apprendere di vite dimenticate e per indossare eroici panni altrui. Riderete o vi commuoverete in complicità col vostro cuscino. Amerete il vostro partner con uno spunto in più, oppure finalmente lo odierete come merita. Troverete luccichii che non vi immaginavate e, una volta tanto, per sognare non vi toccherà necessariamente dormire.
C’è un mondo meraviglioso da sfogliare, senza la De Filippi o (dio mi perdoni) Michele Santoro.
Un mondo di vera finzione. Il più vero.

Palermo, la mia città

Sono palermitano, nato e cresciuto a Palermo (con una lontanissima parentesi padovana) da genitori palermitani. Ho un legame forte con la mia città, non l’ho lasciata e non la lascio nonostante al nord abbia più di un interesse (lavorativo, culturale, persino sportivo…). Sono palermitano, ma non considero Palermo il fulcro del mio mondo né un crogiuolo di debolezze da esaltare. Va bene la salvaguardia dell’identità, ma farne una bandiera – specie se i colori non sono altro che chiazze di unto e spruzzi di ignoranza –, quello no.
C’è, da qualche anno, una tendenza all’esaltazione del palermitanismo, del palermitanesimo, della palermitanitudine, intesi come sublimazione dei luoghi comuni, che non mi piace affatto. Parliamoci chiaro: l’elogio della panella (tipico cibo palermitano), la glorificazione del vicolo come specchio della realtà, l’amalgama di rutti e peti, l’uso del dialetto come slang di moda, mi hanno rotto le scatole. Eppure io mangio le panelle, adoro certi vicoli, parlo in dialetto e… tralascio il resto.
Palermo, come qualunque altra città con una fortissima identità storica, culturale e sociale, non può essere solo il suo passato (peraltro non troppo glorioso). E’ anche altro: cambiamento, multirazzialità, innovazione, trasversalità, contaminazione. Eppure sfoglio libri (che si vendono!) pieni di cumpà, comu si’?, chiddici?, bbuoano, e si affrettano verso una conclusione più che scontata. Leggo blog con opinionisti che fanno del pani ca mieusa un tema da sviluppare a puntate. Assisto a trasmissioni televisive che, pur di fare l’elogio di un provincialismo retrò e popolare, schierano ospiti che non conoscono i congiuntivi, ma che si professano sacerdoti della saggezza antica, quella del vicolo naturalmente.
A Palermo, la mia città, non c’è discorso più impopolare di questo. Puoi schierarti con la destra o con la sinistra, puoi pagare il pizzo o no, puoi rimpiangere la vecchia antimafia o celebrare il nuovo corso. Se tocchi la panella, i suoi profeti, il cumpà comu si’ o l’elogio del rutto, sei bell’e ammazzato. Con proiettili di crocché.

Questo blog

Rapido bilancio di un anno. Sorvolo sulle mie questioni personali, parliamo di voi. Il 2007 coincide con il primo anno di vita di questo blog, che non fa grandi numeri, ma nel suo piccolo…
Ci siamo ritrovati su queste pagine in quasi diecimila utenti unici, per un totale di 28.000 visite. Ogni giorno avete dedicato in media tre minuti del vostro tempo a leggere i miei deliri (e quelli di altri complici). In 4.300 avete visitato il blog più di 200 volte. La maggior parte di voi si collega da Milano, segue Roma, Palermo è terza. Quelli che rimangono più a lungo sono di Catanzaro (con oltre cinque minuti di permanenza media), i più rapidi quelli di Catania (poco meno di un minuto e mezzo). Gli amici di Svizzera, Francia, Gran Bretagna e Spagna hanno prodotto 3.000 visite e hanno mostrato una sorprendente fedeltà. I post più letti, per uno scherzetto di google di cui abbiamo parlato, sono i culi dei vip e le mutande dei vip. Segue il mestiere di giornalista che ha ispirato una piccola campagna (la mafia ha rotto i coglioni) per la quale ringrazio i blogger citati nello spazio qui a destra.
Vi risparmio altri numeri perché già mi fuma il cervello. Però alcune righe vorrei aggiungerle.
Sono un chiacchierone, ma anche un timido: questo mezzo mi ha insegnato a condividere esperienze e opinioni, mooolto personali e se volete bizzarre, senza il vincolo terrorizzante del giudizio. Se anche mi avete scritto contestandomi o attaccando il mio punto di vista, sappiate che mi avete regalato un’emozione positiva. Quella che deriva dal confronto puro delle idee, dal quale, per indecifrabili addizioni (o sottrazioni) del destino, mi ero un po’ estraniato.
Che sia un saluto, una filippica, una proposta, un gioco o una battuta, il vostro post è sempre, dico sempre, un trillo di vita. Reale anche se virtuale.
Grazie.