Riecco tette e culi

Culi e tette, avevo promesso qualche giorno fa. E culi e tette siano.
Per culo Prodi ha resistito fino a ieri. La scommessa difficilissima di risanare i conti pubblici era la più impopolare in termini di consensi. E’ un miracolo (o culo, appunto) che lo pseudo governo del Mortadellone sia durato sin qui. La fortuna chiede sempre e comunque un dazio da pagare. E cadere per mano degli (ex) alleati è un bel prezzo d’immagine. Prossimo obiettivo, suicidarsi trattenendo il respiro.
Il “guerriero”, il “coraggioso” – così l’hanno definito – viene disarcionato mentre su Roma sventolano le bandiere nere. Altro che fegato, il culo di Prodi fondamentalmente consiste nell’essere ancora vivo, nonostante i congiurati che si è scelto come apostoli. Se c’è stata un’ultima cena, immagino tutti i segnaposti uguali, e un solo nome ripetuto: Giuda.
Il sistema bipolare potrebbe essere perfetto se solo si riuscissero a trovare i simboli giusti: antiberlusconiani contro i nemici dei rossi. Via tutti i partitini condominiali. Scegliere: o contro Silvio o contro i nipotini di Stalin, il resto che volete che sia?
Le tette dello Stato da mungere. Le formazioni politiche pigmee avevano e hanno tutto l’interesse affinché si voti subito. Se cambia il sistema elettorale non troveranno più tette da cui succhiare. Insomma si giocano tutto in pochi mesi. Il rovescio della medaglia, o comunque un altro aspetto della suzione avida dalle mammelle statali, sta nella trama intessuta da molti parlamentari che invece puntano sull’accanimento terapeutico per mantenere in vita la legislatura almeno fino al prossimo autunno, momento in cui matureranno il diritto alla pensione. Altrimenti nisba.
Insomma, un concentrato di tette culi e volgarità. Contenti adesso?

Un monumento agli anni Settanta

Un po’ di fatti miei.
Sto scrivendo una storia ambientata negli anni Settanta (almeno in parte). Ho raccolto foto, letto giornali e riviste dell’epoca, consultato archivi telematici, scartabellato tra i ricordi. Fine dei fatti miei.
Un po’ di fatti vostri o nostri.
Ho visto Ballarò, ieri sera, proprio perché la trasmissione era dedicata agli anni Settanta e si occupava dell’angolazione che mi interessa: quella sbagliata.
Gli anni Settanta sono stati l’epoca di una violenza legittimata, quasi giustificata. L’idea romantica di un decennio di grandi rivalse, di teste rialzate, di riscossa italica mi fa, oggi, schifo. Gli anni Settanta, nel nostro Paese, sono un libro riscritto con grafia incerta, giorno dopo giorno. Parole, pallottole, neri, rossi, carnefici, vittime, giustizia, rivoluzione: parole sovrapposte, pasticciate, senza storia.
La storia è il senso del tempo. E il tempo ha regalato la libertà a molti assassini di quegli anni: il killer di Walter Tobagi ha fatto solo due anni di carcere, lo sapevate? Ve lo hanno raccontato?
Ma il tempo può regalare molto di più. Sergio D’Elia era un terrorista di Prima Linea. E’ stato condannato per banda armata e concorso in omicidio. Su venticinque anni ne ha scontati dodici. Nel 2006 è stato eletto deputato alla Camera nelle fila della Rosa nel Pugno, è stato nominato segretario alla Presidenza della Camera e fa parte della III Commissione, Affari esteri e comunitari, e del Comitato di vigilanza sulle attività di documentazione.
Ci indigniamo per i cinque anni in primo grado a Cuffaro, nell’anno di grazia 2008. Cuffaro non ha tirato bombe, non ha ucciso nessuno, non ha tentato l’evasione dal carcere di Firenze (come D’Elia), non si è riciclato come intellettuale, non si è ripulito le mani sporche di sangue sulla camicia inamidata. Cuffaro è un discutibile politico dei giorni nostri. Ma lo è certamente meno di D’Elia. Eppure fa più notizia. Il Signore mi fulmini se voglio difendere il governatore della Sicilia (col videoclip che gli ho regalato…).
Quello che voglio dire è che siamo tutti figli dei fatti. Ma l’amnesia ha un grembo ancora più capiente.
Gli anni Settanta nel mondo hanno portato i Pink Floyd come la discomusic, i libri di Stephen King come quelli di Henri Charriere, i film di Martin Scorsese come quelli di Stanley Kubrick, la rivoluzione tecnologica (compact disc e walkman) come il nudismo. In Italia nulla o poco più di nulla.
Facciamo un monumento nel nostro Paese a quegli anni, facciamolo brutto, un monolito grezzo e oscuro. E cominciamo a studiare almeno la storia più recente.

Barca-menandosi

Raffaella Catalano è un’anima di questo blog. Un passato da giornalista giudiziaria, è oggi editor di successo. Ha scoperto o rivalutato molti scrittori, alcuni dei quali oggi vincono importanti concorsi letterari nazionali. (Perentoria eppure paziente, è riuscita a guidarmi, e soprattutto a non prendermi a schiaffi, durante la messa a punto dei miei romanzi)
Oggi s’inaugura la sua rubrica. Stringata ed efficace, come lei.

Se siete certi di aver fatto bene un lavoro, ma il vostro capo vi accusa di scarsa professionalità, potete rispondergli così:
“L’Arca di Noè è stata costruita da dilettanti e il Titanic da professionisti”.
E sappiamo com’è andata a finire.

(la frase virgolettata è tratta dal web)

Cannoli, per festeggiare

Va bene, quella di Cuffaro è una condanna di primo grado. Va bene, c’è la presunzione di innocenza. Va bene, c’è in giro un qualunquismo da brividi. Va bene, la frase malcitata del Gattopardo viene tirata fuori sempre a sproposito. Va bene, ho guardato vari blog e ci ho trovato il solito “armiamoci e partite” sconfortante. Va bene, però basta adesso.
Facciamo una moratoria della lamentela a basso costo e aspettiamo fino alle prossime elezioni, come semplicemente suggeriva Giacomo Cacciatore ieri.
Dato che carta e penna costano poco, però, annotiamo qualcosa.
1) Tra un presidente assolto per mafia e un presidente assolto e basta c’è differenza (citazione dall’intervista di Elisabetta Margonari per il Tg3).
2) Il festeggiare con cannoli si addice, in Sicilia, a uno sposalizio o a un annuncio di lieto evento, non a una condanna a 5 anni con interdizione perpetua dai pubblici uffici.
3) La piazza, dalla Cina a Milano nel ’45, dal g8 di Genova a San Pietro in Roma, risolve poco se non altro perché le stime dei partecipanti le fa la questura e non un istituto di rilevamento scientifico.
4) La confusione del “facciamo qualcosa” cozza con l’indolenza del “chi la fa per primo?”.
5) La coscienza non è più un primo motore immobile, ma un elemento di una massima andreottiama: “…come una camicia, per mantenerla pulita basta non usarla”.

Da domani culi e tette.

Esserci o non esserci

Ho una fortuna. Un mio grande amico è anche mio collega di lavoro. E soprattutto è uno dei miei scrittori preferiti. Si chiama Giacomo Cacciatore e da oggi ha una rubrica, “L’attimino fuggente”, su questo blog. Buona lettura.

Il giorno dopo la sentenza di condanna al Governatore di Sicilia Salvatore Cuffaro (mi piace la parola governatore, quanto mai appropriata: mi ricorda gli scenari riarsi e gaglioffi della Monterey dei telefilm di Zorro, il tenente Garcia, il servo muto Bernardo) una zia per la quale nutro sconfinata stima mi ha invitato a partecipare alla manifestazione di protesta in piazza Politeama. Ci si doveva riunire, far numero e alzare una simbolica mano alla domanda: “chi ritiene indispensabile che il governatore si dimetta?”. Ci ho pensato su. Mi sono chiesto se fosse giusto manifestare. Lo era. Mi sono chiesto se fosse significativo. Lo era, certo. Mi sono persino domandato se la mia improvvisa titubanza fosse un sicilianissimo rigurgito di timor sacro verso il potere e la sua arroganza; un residuo enzimatico del mio essere “di qui”, un fiotto di vigliaccheria inconfessata – da ometto quale a volte mi capita di essere – e con cui, in fondo, chi vive in Sicilia deve fare i conti. Secoli di attenzione a non azzardare il passo più lungo della gamba, di voci fantasmatiche che fin dalla tenera infanzia ti invitano alla cautela – pena oscure ritorsioni, cadute in disgrazia e inevitabili sconfitte – non sono acqua fresca. L’inconscio collettivo non si smacchia facilmente. Ho preso la penna. Se devo essere ominicchio, preferisco esserlo a metà. E mentre scrivo queste righe, tiro all’improvviso un sospiro di sollievo. Sono stato severo con me stesso. L’enzima di ominicchitudine ha battuto in ritirata, chiedendo scusa per l’incomodo. Sono qui a scrivere perché ci credo di più. Sono qui a scrivere perché credo che uno slogan fuori tempo non possa cambiare la storia, né potrà mai farlo una sentenza a carico di un solo uomo, con tutta l’indignazione – o, a seconda dei casi, – l’esultanza che questa si porta dietro. Sono qui perché credo che la storia, a volte, è possibile cambiarla proprio scrivendo. Non sto parlando di romanzi, non in questo caso. Sto parlando di una “x” tracciata su una scheda che, debitamente ripiegata, pioverà dentro un’urna.
Mi arriva notizia che alla manifestazione c’era tantissima gente, il giorno dopo la sentenza di favoreggiamento (non aggravato) del governatore Salvatore Cuffaro. Ci vediamo in cabina, signori, alle prossime elezioni per il presidente della Regione. E cerchiamo di esserci davvero. È lì che si chiedono le dimissioni di qualcuno.

Un favoreggiamento così così

Cuffaro, condannato a 5 anni ma non per mafia, resta al suo posto e manifesta soddisfazione. Se non fosse troppo lungo – i giornali non sono lenzuoli – potrebbe essere il titolo ideale per riassumere la vicenda che ieri è sfociata nella sentenza di Palermo. In questo titolo infatti c’è la notizia, c’è la puzza della questione morale, c’è il riflesso di un rapporto catastrofico tra politica e giustizia, c’è il grottesco. E, diciamolo, c’è anche quel tanto di pirandellismo che ci ricorda chi siamo, da dove veniamo e dove, si spera, non andremo a finire.
Il governatore della Sicilia, peso massimo dell’Udc, si è visto infliggere 5 anni di reclusione e l’interdizione perpetua dai pubblici uffici (pena sospesa) per aver favorito personalmente una fuga di notizie a favore di un indagato per mafia. Un favoreggiamento niente male. Appare chiaro che favorire una persona qualunque è una cosa, favorire un presunto boss è un’altra. E’ probabilmente sulla scia di questo ragionamento che i giudici, pur non riconoscendo l’“utilità” del governatore nei confronti di Cosa nostra, hanno usato la mano pesante. Resta da capire come si può argomentare giuridicamente che l’adoperarsi per un mafioso non rappresenti un atto estendibile a tutta la sua consorteria criminale.
L’unica cosa che, inequivocabilmente, la sentenza ha sancito è che c’era una rete di talpe alla procura di Palermo. Non erano talpe da poco e non si scambiavano informazioni sulla migliore pasta con le sarde della città.
Il commosso trionfalismo con cui Salvatore Cuffaro ha accolto la sentenza mi ha irritato, perché è una furbaggine di politicaccia vecchia. Equivale a dire “gol!”, quando il pallone è dentro la propria rete: gli spettatori non sono scemi, e quelli paganti possono incazzarsi.
Il fiume di reazioni soddisfatte alla sentenza ha fatto il resto. Casini, Cesa (Cesa, ve lo ricordate? Proprio lui), Berlusconi… Una politica civile avrebbe manifestato, con libertà, il proprio affetto, la propria vicinanza, la propria stima a un imputato condannato (seppur a una pena inferiore a quella richiesta dall’accusa) e si sarebbe astenuta dal peana. Proprio per l’assoluta mancanza di argomenti: il lieto evento da celebrare, il soggetto da encomiare, la vittoria da festeggiare.
Su queste basi non stupisce la fragile architettura logico-poltronistica che Cuffaro ha messo su per non dimettersi. Siccome aveva detto che se ne andava solo in caso di condanna per favoreggiamento di tipo mafioso, non se ne va. Come dire: si può rubare in tutti i supermarket, tranne che in uno.

Un nuovo inizio

Con questo articolo Roberto Torta inaugura la sua rubrica settimanale (o chissà) su questo blog: Torta in faccia. Che dio me la mandi buona.

di Roberto Torta

Lucia ha 38 anni, è insegnante, non è mai stata sposata. Ieri sera, a cena, parlava di una nuova sua fiamma: Giovanni, assicuratore. Diceva quanto è bello e quanto le fa bene avere un nuovo inizio. “Perché – spiegava – iniziare una storia, uno sport, un’attività, è una vera e propria ginnastica per il cervello”.

Scoprire un nuovo odore, un nuovo timbro di voce, nuove inflessioni dialettali, nuovi modi di baciare, di guardare le cose, occhi a cui non siamo abituati: tutto questo stimola la nostra fantasia.
La discussione è stata ampia e articolata. Mia moglie, intelligente ma gelosa come un Otello, diceva che iniziare sempre significa non avere un punto fermo e credo che Lucia non verrà più a casa mia.
Mio cognato aveva la bava alla bocca solo al pensiero di poter stare lontano da sua moglie.
Altri amici, noti e assertori della teoria “basta che respirano”, con accanto le loro compagne si esibivano in salti mortali di dichiarazioni su quanto sia importante avere una relazione stabile. Io li guardavo allibiti e notavo gli occhi scintillanti di queste compagne, proprietarie di così tante corna che solo Dio sa (oltre me e almeno un centinaio di persone).
Lucia insisteva e passando dal personale al generale diceva: “Quando conosci una persona nuova, ti viene voglia di farti la ceretta anche all’inguine, vai dal parrucchiere più spesso, cerchi di essere originale e di condividere i suoi interessi. Diventi gradevole fuori ma anche dentro. Poi, certo, la delusione può essere dietro l’angolo, ma in quel caso si può rimanere semplicemente amici o non frequentarsi più. La vita dev’essere una serie continua di inizi”.
Tutti aspettavano il mio parere e, lo confesso, ho detto una cosa di cui mi vergogno spudoratamente: “Io inizio ad amare mia moglie ogni mattina”.
Ma l’ho fatto solo perché non mi va di iniziare le pratiche per il divorzio.
P.S. E’ inutile che mi chiedete il numero di Lucia, tanto non ve lo darò mai.

Mastella e oltre

Sul caso Mastella ci sono almeno due chiavi di lettura.
Primo, la procura ha ragione. In tal caso la politica sta facendo irruzione (ancora una volta pesantemente) in un ambito che non le compete e sta interferendo con un potere che deve restare indipendente.
Secondo, la procura non ha ragione. Il sistema politico sta reagendo alla scossa destabilizzatrice che proviene da una ristretta componente di un apparato dello Stato.
Dovremo aspettare per capire quale delle ipotesi è quella fondata. Personalmente, spero che l’inchiesta dei magistrati di Torre del Greco sia solida a tal punto da giustificare un simile terremoto.
C’è però una terza via, che non esclude le precedenti, ma che potrebbe essere corollario, e al tempo stesso spiegazione, di ciò che accade da anni nel nostro Paese.
Il sistema (termine scongelato dal vocabolario degli anni Settanta) è sbagliato. Tutto.
Che sistema è, infatti, quello in cui:
I politici vogliono giudicare al posto dei giudici.
I giudici vogliono governare al posto dei politici.
Un papa si tira indietro davanti alle prime protestucole di quattro professori e di un manipolo di universitari.
La pubblica opinione è nelle mani di un comico che fa ancora ridere.
Il timone dell’Italia è nelle mani di una banda di comici che non sanno di essere comici.
Il disfattismo è il partito politico di maggioranza.
YouTube è l’unico misuratore attendibile di consenso.
Il telefono cellulare serve a tutto fuorché a comunicare.
I referendum sono strumenti il cui unico vantaggio è regalare qualche giorno di vacanza in più agli studenti.
Ridateci Antelope Kobbler.

Ancora su Sofri

Vi chiedo scusa, ma almeno per un giorno devo tornare sul caso Sofri. Alcune e-mail e post ricevuti mi impongono una precisazione.
Partiamo da un principio. Messi di fronte, Luigi Calabresi e Adriano Sofri non hanno lo stesso peso, non possono averlo: perché il primo è terra, il secondo è carne.
Per quanto riguarda Sofri, il mio amico Davide Camarrone mi rimprovera di piegare il mio giudizio alla “formalità di una condanna” molto controversa. Ho già detto che la vicenda è complicatissima, e ne ho piena contezza. Però credo che banalmente ci si debba piegare, a un certo punto, a una verità giudiziaria: altrimenti si va incontro alla destabilizzazione dei ruoli.
E’ un mio problema. E mi spiego: se io non riconoscessi la colpevolezza di Sofri – che è scritta in una sentenza che può apparire a molti detestabile – negherei l’esistenza di un giudizio terreno. E ciò si ripercuoterebbe in ogni ambito in cui sono chiamato a rispettare una regola. Perché non riconoscerei più una fine, un punto di arrivo. Sofri per la legge italiana è colpevole, pur essendo un intellettuale, pur professando la sua innocenza, pur affrontando la pena con dignità. Se lo Stato, l’istituzione somma, deciderà di alleggerire il suo fardello mi inchinerò alla decisione.
Il commissario Luigi Calabresi è stato scagionato post mortem da ogni responsabilità per la tragica fine dell’anarchico Pinelli: si è accertato che lui non era neanche in quella sua stanza quando quel povero ragazzo volò dalla finestra. Si continua – anche sui muri delle città, nei cortei, nelle discussioni da sedicenti post-sessantottini – a sommare i cognomi: Calabresi + Pinelli= giustificata vendetta.
Certi editoriali di Lotta Continua sono stati, come metafora di una violenza senza nessuna ragione storica, una vergogna di questo paese. Il revisionismo degli anni Settanta – e mi scuso per il linguaggio – è un grappolo di emorroidi in un deretano sfondato di menzogne travestite da rivoluzioni.
E’ possibile che Sofri sia una vittima innocente di un sonno della giustizia che partorisce mostri.
E’ certo che il commissario Calabresi e gli altri che hanno fatto la sua stessa fine (professori universitari, giornalisti, operai, sindacalisti, carabinieri, poliziotti…) sono vittime innocenti del sonno di una ragione malata.

Serendipità

L’altro giorno, leggendo l’e-mail di un’amica, mi sono imbattuto in una parola di cui mi ero dimenticato: serendipità.
Come qualsiasi dizionario ed enciclopedia vi ricorderanno, questo neologismo, originato dal più noto serendipity (anglosassone), indica lo scoprire qualcosa mentre se ne cerca un’altra. Ma, si badi bene, il concetto è ben diverso da quello di culo (inteso come fortuna). La serendipità è una strada con infinite traverse e solo la capacità e il valore di chi la percorre potranno rendere giusta la traversa “sbagliata”. E’ anche, secondo una celebre metafora, “cercare un ago nel pagliaio e trovarci la figlia del contadino”. E’ l’idea che arriva alle spalle. E’ l’America scoperta al posto delle Indie. Con quel che ne consegue.
Nonostante la mia diffidenza paranoica, credo molto nella serendipità anche per conoscere meglio chi mi circonda. Si sa spesso di più quando meno si cerca con accanimento. Il fatalismo impigrisce, la serendipità arricchisce tutti.

P.S.

Vi giuro che ieri sera ho mangiato leggero e ho bevuto praticamente nulla.