Paure, pecore, libri

Siamo anche ciò che temiamo. Ma è davvero importante avere una coerenza di timori per mantenere una conseguente linearità psicologica? Per quanto ne so, e per quanto mi è stato dato modo di capire vivendo, no. Basta buttare un occhio al passato per accorgersi che le paure sono più mutevoli di un virus e che, in fondo, è più la luce incutere timore che il buio.

Pensate che in epoca vittoriana c’era un vero allarme morale per la scoperta di come numerose donne si fossero date alla lettura di “romanzi”. Sino a qualche decennio fa (dire “nel secolo scorso” fa anziano decrepito e finche posso mi rifiuto) si temeva l’assuefazione dei giovani al gioco del flipper e addirittura al chewing gum, nonché ci si terrorizzava immaginando gli effetti che l’allora nuova televisione avrebbero potuto avere sulle menti del popolo bue. E così via: dal Boing  al telefonino, dalla Coca Cola a internet, dalla tv spazzatura ai social network.

È poco consolante ma molto istruttivo arrendersi a certe evidenze. Il vero pericolo, un pericolo che magari non è teatrale e ci coglie di sorpresa senza darci il preavviso di essere fenomeno di massa, è quello che attraversa le barriere della nostra percezione a breve distanza. Un pericolo che non dà il tempo  ai giornali di inventare o promuovere categorie (il popolo del web, la generazione jeans, i guerriglieri pacifisti, i respiriani), ma che si apposta e colpisce come un vero nemico: nel buio, dal nulla, di nascosto, facendo vittime innanzitutto tra chi lo ha intravisto per primo tramite il discredito.

Un virus.

Il meno affascinante e meno dotato di appeal tra i mostri che si potrebbero inventare, facendo le dovute eccezioni che partono da Stephen King e arrivano al Nobel che prima o poi gli dovrà essere assegnato.  

Siamo anche ciò che temiamo. Ma questa pandemia ci ha insegnato che siamo soprattutto ciò che non immaginiamo. Quindi per combattere o per prevenire, dobbiamo immaginare di più, leggere di più, studiare di più, sognare di più.

La vera immunità di gregge si raggiunge coi libri.   

Che sia pioggia. E arcobaleno.

L’altro giorno, scrivendo una cosa destinata all’oblio, riflettevo sul fatto che chi desidera vedere l’arcobaleno deve imparare ad amare la pioggia.

Per mestiere e per vocazione sono sempre stato gioiosamente abituato, quasi forgiato, al peggio: non certo per resistergli, ma per poterlo recensire da un angolo minimamente riparato, da un punto di osservazione elevato al punto giusto per non falsare la prospettiva e basso quanto basta per non impantanarsi, immobilizzarsi, annegare. Il meglio nei miei anni d’oro di giornalismo era spesso il peggio della cronaca. Capita a chi ha scelto il mestiere di raccontare, anche dalla cucina di un giornale (perché la cronaca non è fatta soprattutto di prime file, ma anche di braccia che impastano e teste che immaginano dove altre teste vogliono andare), capita soprattutto a chi sa che persino nel paese dei balocchi c’è un cattivo in agguato che fa di quel posto il luogo che tutti sogniamo. Siamo arcobaleno che nasce dalla pioggia.

In questi frangenti di paura epidermica, di starnuti che sembrano fucilate, di febbri da prime pagine, di anziani caduchi e di casuali untori, c’è un senso comune che va cercato, e possibilmente trovato, nelle piccole cose perdute. Che non sono la convivenza forzata con i figli che magari conoscevamo solo biologicamente o la confidenza recuperata con un libro sepolto per anni sotto le riviste sul comodino, ma sono proprio i nostri vicini di sempre: il/la collega dall’alito pesante ma, lo scopriamo solo ora, dal cuore accogliente; l’amica/o che si cura di noi oltre l’ordinarietà di un aperitivo; il parente che era foto sbiadita di un mondo in Polaroid e che si rivela nelle tre dimensioni fondamentali di un mondo in emergenza, ci sono – ci sono – ci sono.  

Grazie a un virus, e non a un mahatma, stiamo imparando che quando le ruote sono a terra il problema non è gonfiarle, ma riprendere a correre. Perché la grande crisi che potrebbe ammazzare il mondo non è energetica o nucleare, non è terroristica o ambientale. È la crisi più subdola e terrorizzante e scaturisce dalla ricchezza ingiusta, dal potere dell’ignoranza, dalla grettezza dei numeri, dalla dittatura del sentito dire.

È, ve lo confesso, la battaglia professionale più complicata che abbia mai combattuto poiché non ha schieramenti ufficiali ma solo partigiani, anarchici, truppe di volontari. È la battaglia per salvare l’entusiasmo in un mondo di fanatici.

Ecco perché oggi è importante sognare e garantire i sogni allo stesso modo dei farmaci e del cibo. Ecco perché le istituzioni culturali sono ospedali del sapere, che a loro modo salvano esistenze.

Ecco perché, come in uno Stargate, dobbiamo imparare a guardare la pioggia in modo diverso. “C’è chi aspetta la pioggia per non piangere da solo”, diceva De Andrè. Ma ancora l’arcobaleno non ci mancava maledettamente tanto.

Sbaglio ci fu?

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Ecco la foto dello scienziato pazzo, colto in un momento di relax.

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P.S.
Poi qualcuno mi spiegherà, per favore, che significa “tre anni di viaggi gratis a chi si ammala”…
Li spediscono in giro per il mondo a spandere il virus?